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Evgenija Solomonovna Ginzburg (1904 - 1977)

il viaggio nella vertigine del Gulag

Nasce a Mosca nel 1904 da una famiglia ebraica benestante, che nel 1909 si trasferisce a Kazan’, dove Evgenija si laurea all’Istituto psicopedagogico con la specializzazione in Storia. Nel 1932 si iscrive al partito, lavora all’università come ricercatrice e scrive nella redazione locale del giornale Tatarija Rossa. Sposatasi con Pavel Vasiljevic Aksënov, membro della segreteria del Comitato Centrale del partito della Tatarija, entra a far parte della prima generazione dell’intelligencija sovietica. Nei primi anni Trenta le élites del partito godono di molti benefici, ma a partire dal 1° dicembre 1934 la loro sorte cambierà per sempre: l’assassinio di Sergej Mironovič Kirov, (uno dei massimi dirigenti del partito) diventa l’occasione cercata da Stalin per dar vita al “grande terrore” e reprimere ogni tipo di opposizione. All’omicidio di Kirov fanno seguito i primi arresti di comunisti considerati fino allora di provata fede, tra cui il professor El’vov, collega della Ginzburg all’Istituto pedagogico. Accusata di non aver denunciato l’amico “trockista”, Evgenija rifiuta di ammettere una colpa inesistente e viene quindi espulsa dal partito. Il 15 febbraio 1937 è arrestata a sua volta con l’accusa di aver preso parte a un’organizzazione terroristica all’interno della redazione del “Tatarija Rossa” e di essere trockista; gli uomini dell’NKVD cercano poi di costringere il marito a ripudiarla e, di fronte a un suo rifiuto, lo arrestano pochi mesi dopo insieme a Vasilij, il figlioletto di cinque anni, che viene trasferito nell’orfanotrofio di Kostroma e potrà rivedere la madre solo molti anni dopo.

Per la Ginzburg inizia la terribile fase dell’istruttoria: reclusa in una cella sotterranea del carcere di Kazan’ rifiuta di confessarsi colpevole e di fornire prove false contro degli innocenti per salvarsi. Viene allora sottoposta a un interrogatorio ininterrotto di sette giorni consecutivi senza mangiare né dormire, e quando risponde ai suoi inquirenti che non deporrà il falso perché non sarebbe onesto, il maggiore El’šin le ribatte che nell’etica marxista-leninista: “è onesto ciò che è utile al partito e allo Stato”. Di fronte alla strenua resistenza della Ginzburg a prestarsi alla delazione, i carcerieri ricorrono alla tattica consolidata di raccogliere testimonianze false contro di lei, ricattando alcuni suoi amici, che cedono per paura di finire nello stesso “tritacarne”. Dopo un processo durato sette minuti, viene condannata a dieci anni di reclusione e isolamento (il marito fu condannato a quindici anni di prigione).

Trasferita a Mosca nel carcere di Butyrka, sotto shock per essere scampata alla fucilazione prevista per i reati di cui è accusata, Evgenija stringe amicizia con le persone più diverse, tutte detenute senza ragione, e sperimenta un livello più profondo di relazione tra gli esseri umani, che va oltre la semplice coscienza di partito e coinvolge sentimenti e valori universali; scossa dall’incontro con la tortura e il dolore prende consapevolezza del tremendo conflitto interiore che le detenute comuniste debbono affrontare: ciò che grida la coscienza individuale e quello che la fedeltà al partito impone sono divenuti termini antitetici e inconciliabili.

Dopo due anni trascorsi in cella di isolamento a Jaroslavl’, in uno spazio di cinque passi per tre, con quindici minuti d’aria al giorno, la Ginzburg viene trasferita ai campi di lavoro correzionale. Iniziano gli anni terribili della Kolyma, dove viene assegnata a diverse mansioni, con alterne fortune. La pesantezza del lavoro, la crudeltà dei capi del lager, la violenza dei delinquenti comuni, ridurranno più volte Evgenija in fin di vita, ma ogni volta, con l’aiuto di circostanze favorevoli e inaspettate, la sua tempra e il suo spirito avranno il sopravvento, fino a farle commentare: “a prima vista sembrava accidentale, ma in effetti era una manifestazione normale di quel Bene che, nonostante tutto, regna sul mondo.”

Scontata la condanna, nel 1947 la Ginzburg viene rilasciata e, dopo la morte, di Stalin ottiene la riabilitazione per “mancanza di reato”. Per sopravvivere redige articoli e saggi per la stampa periodica, mentre di notte scrive il romanzo che la renderà celebre, Viaggio nella vertigine, che termina nel 1962 e che presto viene diffuso con grande successo attraverso la stampa clandestina, riscuotendo l’apprezzamento di giovani lettori e di noti scrittori. Nel 1966 si trasferisce a Mosca, dove incontra Solženicyn che, in Arcipelago Gulag, farà più volte riferimento al romanzo nel descrivere la mentalità della “leva del ‘37”: i detenuti provenienti dal partito. Il manoscritto, testimonianza della brutale esperienza del Gulag, viene rimaneggiato più volte da Evgenija, che paventa la censura e soprattutto teme il pericolo, sempre in agguato, dell’arresto e di una nuova persecuzione, fino a decidere di liberarsi della prima stesura, che lei stessa brucerà. Nel frattempo il libro, a sua insaputa, viene pubblicato in Italia da Mondadori nel 1967 e poi in tutta Europa. Quando il KGB riesce a impossessarsi dell’archivio di Solženicyn e il ministro della sicurezza definisce diffamatoria l’opera della Ginzburg, in Evgenija si risvegliano le vecchie paure. È lei stessa ad ammetterlo in una pagina del romanzo: "Del resto anch’io, a volte, ripiombo nella paura quando suonano o bussano di notte, oppure quando sento girare la chiave dall’esterno…".

Il suo unico viaggio in Occidente avviene pochi mesi prima della morte. Accompagnata dal figlio, lo scrittore Vasilij Pavlovič Aksënov, si reca in Francia e in Germania, dove incontra Heinrich Böll. Rientrata a Mosca, malata di tumore, muore il 25 maggio 1977 e viene sepolta nel cimitero di Kuzminki accanto al secondo marito Anton Walter, medico ebreo anch’egli detenuto, incontrato nel lager e suo fedele compagno durante e dopo la detenzione.

Nell’ambiente della dissidenza sovietica, in particolare degli scrittori, il lavoro della Ginzburg è stato accolto in modo controverso e una parte dei grandi autori della letteratura del dissenso ha espresso su di lei giudizi a volte ingenerosi. Varlam Šalamov accusò Viaggio nella vertigine di “romanticismo a buon mercato e di smaccato sentimentalismo”, mentre il direttore della rivista “Novyj mir” Tvardovskij disse che la Ginzburg “si era accorta che c’era qualcosa che non andava solo quando hanno cominciato a mettere in galera i comunisti. Quando invece sterminavano i contadini russi considerava il fatto del tutto naturale!”. 

Rimane inalterato, in ogni caso, il valore della lunga resistenza della Ginzburg nell’inferno dello stalinismo, la sua coraggiosa opposizione alla logica distruttrice del totalitarismo nei confronti della dignità umana, il suo sforzo per liberarsi dalla gabbia ideologica che aveva condizionato le scelte della sua giovinezza e per rielaborare la propria esperienza nella ricerca della verità; rimane, con Viaggio nella vertigine, la testimonianza drammaticamente straordinaria di una protagonista del ‘900.

Bibliografia:
Evgenija S. Ginzburg, Viaggio nella vertigine, trad. D. Ferri, Barldini & Castoldi, Milano, 2013.

Da Viaggio nella vertigine, sono stati tratti due film: E cominciò il viaggio nella vertigine (1974) e Viaggio nella vertigine  (2009), con Emily Watson che interpreta Evgenija Ginzburg.

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