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7 anni di carcere per due giornalisti in Myanmar

stavano indagando sui massacri dei Rohingya

Kyaw Soe Oo

Kyaw Soe Oo

Lo scorso dicembre due giovani giornalisti della Reuters - Wa Lone e Kyaw Soe Oo - sono stati imprigionati a Yangon, in Myanmar, per aver investigato sui massacri ai danni della minoranza musulmana Rohingya nel Paese. In particolare sono stati considerati illegalmente possessori di alcuni documenti ufficiali riguardanti l’uccisione di 10 uomini da parte di un gruppo di soldati e di abitanti di un villaggio a nord del Rakhine. In questi giorni la notizia della condanna: 7 anni di carcere per aver violato la legge sui Secrets Act, reato punibile con una detenzione fino a 14 anni. I due si dichiarano innocenti e puntano il dito contro la polizia, che li avrebbe incastrati invitandoli a una cena durante la quale sarebbero stati consegnati loro proprio quei documenti di Stato per cui poi sono stati detenuti. Kyaw Soe Oo dichiara inoltre che, durante le investigazioni, sarebbe stato costretto per ore in ginocchio senza poter dormire e con un cappuccio nero in testa. Decine di giornalisti e attivisti hanno manifestato per le strade di Yangon contro quella che rappresenta un’evidente minaccia alla libertà di stampa. “Non ho paura, ha detto Wa Lone, non ho fatto niente di sbagliato e credo nella giustizia e nella democrazia”.

Tutto ciò non è passato inosservato nemmeno fuori dai confini del Paese. La condanna è arrivata anche dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, che ad agosto avevano già presentato una serie di sanzioni a danno di ufficiali dell’esercito birmano, anche se non ai danni di figure leader dello Stato. Il direttore della divisione asiatica di Human Rights WatchBrad Adams, ha commentato la vicenda dicendo che “si tratta di una ulteriore macchia nera, in tema di diritti, per il governo di Aung San Suu Kyi”. Questa vicenda è solo l'ultimo sviluppo di una trama ben più ampia, di cui si sta parlando molto: il 20 agosto, dopo un anno di indagini, un gruppo di esperti dell’ONU ha rilasciato un report dove si afferma che “i vertici dell’esercito del Myanmar dovrebbero affrontare un processo in una Corte Internazionale per il genocidio ai danni dei musulmani Rohingya e per crimini contro l’umanità verso altre minoranze etniche”. “La brutalità, il livello di organizzazione e la propaganda di odio dietro ai massacri avvenuti sono prove dell’intento genocida”, si legge nel documento redatto dall’ONU. Le accuse non risparmiano le autorità civili e soprattutto la leader birmana Aung San Suu Kyi, colpevole di non aver usato la sua posizione per fermare i massacri. Le dichiarazioni del governo del Myanmar, che sostiene si sia trattato solo di un meccanismo di difesa contro gli attacchi militari dei Rohingya, risultano evidentemente infondate.

Lo scorso anno l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra’ad al Hussein, aveva già accusato l’esercito birmano di atti di pulizia etnica e possibile genocidio, ma risultati evidenziati dal panel - che comprendono anche più di 800 atroci testimonianze raccolte dagli esperti ONU - rendono ancora più indubbia la necessità di un intervento immediato a livello internazionale. Qualche giorno fa, al Hussein ha formulato accuse forti anche contro Aung San Suu Kyi: avrebbe potuto "restare in silenzio o, meglio ancora, avrebbe potuto rassegnare le dimissioni" e non appoggiare la giunta militare.

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