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"La prevenzione dei genocidi"

gli interventi di Marcello Flores, Gerard Malkassian e Yair Auron

Gerard Malkassian, Marcello Flores, Gabriele Nissim e Yair Auron al Teatro Franco Parenti

Gerard Malkassian, Marcello Flores, Gabriele Nissim e Yair Auron al Teatro Franco Parenti

Si è aperto ieri il ciclo di incontri “La crisi dell’Europa e i Giusti del nostro tempo”, organizzato da Gariwo in collaborazione con il Teatro Franco Parenti, con il patrocinio dell'Università degli Studi di Milano e della Fondazione Corriere della Sera.

La prima conferenza, dedicata a “La prevenzione dei genocidi”, ha visto protagonisti gli storici Marcello Flores e Yair Auron e il filosofo Gerard Malkassian. I loro interventi integrali sono disponibili nel box approfondimenti.

Marcello Flores, docente dell’Università di Siena, ha aperto l'incontro illustrando gli strumenti adottati dalla comunità internazionale per la prevenzione dei genocidi, a partire da quelli istituiti nell’immediato dopoguerra. “Nel dicembre 1948 le Nazioni Unite decisero di approvare quasi contemporaneamente due provvedimenti fondamentali, che sono ancora adesso alla base della nostra idea dei diritti e del diritto internazionale. Il 10 dicembre venne approvata la Dichiarazione universale dei diritti umani, che per la prima volta sancì l’uguaglianza totale di tutti gli individui, di ogni persona, di cui andava garantita la difesa e tutela dei diritti fondamentali. Il giorno precedente, il 9 dicembre, era stata approvata la Convenzione sul genocidio. L’accoppiata del 9 e 10 dicembre - ha ricordato Flores - 1948 voleva stabilire in forma solenne e incontrovertibile che – dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, del nazismo e della Shoah – non sarebbe più stato possibile ripetere quei crimini e si individuava la forma nuova per difendere i diritti di tutti”.

Il professor Flores ha ricordato l’esperienza del genocidio in Ruanda, della pulizia etnica nei Balcani, degli interventi in Iraq e Libia, per arrivare a concludere che “I problemi irrisolti, in ogni modo, restano i due più importanti, che costituiscono il vero tallone d’Achille per ogni realistica prevenzione: la mancanza di volontà politica (delle Nazioni Unite, dei gruppi di Stati, di singoli Stati) e il potere di veto nel Consiglio di sicurezza, che hanno ostacolato in troppe occasioni la possibilità di intervenire per bloccare un genocidio quando era iniziato o quando erano presenti i primi segnali di aggravamento di una crisi che sarebbe potuta sfociare in genocidio”.

Lo studio dei genocidi è centrale anche nell’intervento di Yair Auron, docente alla Open University di Ra'anana vicino a Tel Aviv. “Dal punto di vista degli aguzzini - ricorda Auron - possiamo chiamare il genocidio contro gli armeni un “genocidio riuscito”. È “riuscito”, in quanto circa un milione e mezzo di armeni furono uccisi e molti, moltissimi finirono a ingrossare le schiere dei profughi. Poi in Turchia riuscirono a coprire la vicenda. Semplicemente non si parlò del genocidio armeno. Nel campo degli studi sui genocidi, diciamo che l’ultima fase del genocidio è la negazione”. Auron analizza le somiglianze tra il genocidio armeno e la Shoah, prima tra tutte il fatto che entrambi i massacri siano stati “coperti” dalle guerre in corso, e si sofferma sul tema dell’unicità della Shoah. “In Israele, purtroppo, non studiamo i genocidi da un punto di vista comparativo, ma insegniamo soltanto il genocidio ebraico, la Shoah. Non insegniamo gli altri genocidi, né nei licei, né nelle università. Si tratta di una situazione inaccettabile, e dal punto di vista morale e da quello accademico. La Shoah non è una categoria unica, come se ci fosse un concetto chiamato Olocausto, e un altro concetto chiamato “genocidio”. Io penso invece che la Shoah, il genocidio ebraico, debba essere studiata nel quadro degli studi comparati sui genocidi”.

Auron parla di Giusti, della storia di Yolande Mukagasana, sopravvissuta al genocidio ruandese del 1994, e della necessità che i gruppi di vittime compiano sforzi comuni, anche nel reciproco riconoscimento. “Noi siamo uguali, sia che siamo armeni, ebrei, palestinesi, tutsi o hutu. Questa per me è l’eredità della Shoah e degli altri genocidi. Ma non riconoscendo gli atti di genocidio adesso, si prepara la strada per futuri genocidi”. 

Il tema del genocidio armeno è ripreso da Gerard Malkassian, professore all’Università di Parigi, promotore dell'appello "Noi facciamo un sogno, insieme", per il dialogo turco-armeno. “La domanda sulla prevenzione dei genocidi si divide, secondo me, in due rami. Prima della sua attuazione, l’educazione e la cultura sono importantissimi fattori preventivi: il valore del rispetto delle minoranze, della risoluzione pacifica dei conflitti, la conoscenza della storia, la memoria mantenuta delle tragedie del passato, tutti questi elementi sono utili per allontanare la gente e i dirigenti dal demonio della violenza di massa. Altro è sapere come impedire un genocidio in corso o «incoando», avviato. Penso che solo l’intervento energico e inflessibile, anche armato, anche di altri Paesi, può ostacolare dirigenti che si sono decisi a varcare la soglia dell’orrore organizzata”.

Parlando di crisi dell’Europa e della questione dell’adesione turca all’Unione, ricordando Hrant Dink, Fethiye Çetin e Asli Erdogan, Malkassian si pone forti interrogativi. “Cosa accadrà da oggi in poi mentre l’Europa si sfalda poco a poco anche su scelte dei valori morali e politici, quando è bloccata davanti alle sue dissonanze interne e alle guerre che si svolgono a pochi chilometri dei suoi confini? O quando tace quasi totalmente di fronte alla repressione multilaterale e antidemocratica che si scatena in Turchia su iniziativa del Presidente Erdogan, per paura di essere invasa da centinaia di migliaia di profughi e di rifugiati dalle zone in guerra? Andiamo inoltre: quanto pesano sul governo turco le minacce, le ammonizioni emesse da istituzioni europee, quando queste e la maggior parte dei Paesi membri hanno chiuso la porta all’Europa, che si socchiudeva sempre più da più di sessanta anni? Non rimane oggi quasi nessun mezzo di pressione e, pertanto, nessuna speranza di uscire dall’infernale miscela di nazionalismo e di islamismo”.

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