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​Orgoglio europeo. Note sul sesto punto della Carta delle responsabilità

di Francesco Tava

Nel novembre 1956, in una Budapest scossa dall’invasione sovietica, il direttore dell’agenzia di stampa ungherese lanciò un messaggio disperato, poco prima che il suo ufficio fosse raso al suolo: “Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”. L’episodio è riportato da Milan Kundera, in un articolo apparso sulla “New York Review of Books” nel 1984 e intitolato La tragedia dell’Europa centrale.[1]
Che significato può avere questo estremo riferimento all’Europa, in un contesto in cui lo stesso concetto di spazio europeo era inevitabilmente spezzato dalle circostanze storiche? Per quale Europa erano disposti a morire tanti ungheresi nel 1956? È una domanda alla quale lo stesso Kundera non sa dare risposta e che tuttora rimane sostanzialmente aperta. La tragedia dell’Europa centrale si misura, secondo lo scrittore ceco, alla luce di tale quesito irrisolto. Per decenni, popoli collocati geograficamente nel bel mezzo del territorio europeo si sono trovati a fronteggiare, più di chiunque altro, la dissoluzione di questo spazio geopolitico, a fronte dell’emergere di nuovi centri di potere, impegnati a generare un conflitto duraturo.

Un trentennio è trascorso dall’articolo di Kundera. Nonostante gli enormi cambiamenti sopravvenuti in questo lasso temporale, è difficile negare l’attualità delle sue riflessioni. Con la differenza che, se ai tempi era la sola Europa centrale a doversi misurare con la sua condizione tragica, essa sembra oggi adattarsi all’Europa in quanto tale, e non solo a una sua parte. La stessa situazione di crescente perifericità che ha segnato a lungo i destini del Centroeuropa, riguarda ormai l’intero continente, che appare incapace di definire uno statuto politico e istituzionale tale da permettergli di fare fronte alle crisi globali che periodicamente penetrano i suoi sottili confini. A quale Europa ci si può ragionevolmente appellare oggigiorno, per trovare un terreno solido, su cui cominciare a ricostruire un nuovo principio comunitario? Il rischio è che oggi gli appelli all’unità europea finiscano per essere letti precisamente come l’urlo del direttore ungherese: come, cioè, un gesto tragico e disperato, quasi a voler evocare un fantasma, piuttosto che immaginare un concreto progetto politico.

La crisi a cui l’Europa fa fronte da alcuni anni a questa parte non è semplicemente economica e politica, ma in primo luogo identitaria. Ogniqualvolta si tenta di inaugurare un discorso sull’identità europea, inevitabilmente si rischia o di ricadere tra le frange di movimenti conservatori interessati a difendere la ‘Fortezza Europa’ da qualsiasi commistione con culture extra-europee, o di essere accusati di un sostanziale eurocentrismo, quasi che l’Europa non sia un continente e una civiltà tra le tante, ma l’unica civiltà in grado di fungere da metro di giudizio universale per tutte le altre. La più lucida accusa contro l’Europa e l’eurocentrismo è forse quella espressa da Franz Fanon negli anni sessanta, da cui si sarebbero poi diramati i vari sentieri del pensiero post-coloniale.

“Si tratta, per il Terzo Mondo, di ricominciare una storia dell’uomo che tenga conto al tempo stesso delle tesi a volte prodigiose sostenute dall’Europa, ma anche dei delitti dell’Europa, di cui il più efferato sarà stato, in seno all’uomo, lo squarcio patologico delle sue funzioni e lo sbriciolamento della sua unità; nel quadro d'una collettività, la rottura, la stratificazione, le tensioni sanguinose alimentate da classi; infine, alla scala immensa dell’umanità, gli odi razziali, la schiavitù, lo sfruttamento e soprattutto il genocidio esangue costituito dall’aver messo da parte un miliardo e mezzo di uomini. Dunque, compagni, non paghiamo tributo all’Europa creando Stati, istituzioni e società che se ne ispirano. L’umanità aspetta altro da noi che quest’imitazione caricaturale e nell’insieme oscena. Se vogliamo trasformare l’Africa in una nuova Europa, l’America in una nuova Europa, allora affidiamo ad europei le sorti dei nostri Paesi. Sapranno farci meglio che i meglio dotati tra noi. Ma se vogliamo che l’umanità avanzi d’un grado, se vogliamo portarla a un livello diverso da quello in cui l’Europa l’ha manifestata, allora occorre inventare, occorre scoprire”.[2]

L’esortazione – rimasta largamente inascoltata – che Fanon rivolgeva allora ai “dannati della terra”, ovvero alle vittime del colonialismo europeo, affinché non si limitassero a riprodurre lo stesso paradigma politico e sociale a cui erano stati a lungo soggetti, si ripercuote oggi sull’Europa stessa. Come è possibile parlare di “orgoglio europeo”, come avviene nella Carta delle responsabilità 2017, quando si riconosce che la storia europea non è stata storia di pace e di solidarietà, ma in primo luogo storia di guerre e sopraffazione? È davvero ancora possibile mantenere l’Europa come modello alla luce dei suoi trascorsi? L’accusa di Fanon, per ovvi motivi cronologici, era limitata al fenomeno storico del colonialismo, ma trova oggi nuova eco alla luce delle crisi umanitarie che l’Europa sembra non essere in grado di gestire adeguatamente. La sostanziale inadeguatezza dell’azione di Frontex – l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera che dovrebbe salvaguardare i confini dello spazio Schengen – è stata denunciata già nel 2008, in una dichiarazione presentata da un folto gruppo di organizzazioni non governative all’UNHCR Standing Committee.[3]
In questo documento si sottolinea, in particolare, una presunta violazione da parte delle autorità europee della Convenzione di Ginevra del 1951, in cui si definisce lo statuto e i diritti del rifugiato. Tale Convenzione, insieme alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948, rappresenta una delle tappe fondamentali attraverso cui i Paesi occidentali hanno tentato, in seguito alla conclusione del secondo conflitto mondiale, di riavviare un percorso di pace e di sviluppo sociale, e non solo di mero progresso economico. Il fatto che l’Unione Europea, la cui creazione scandisce un’altra importante tappa in questo processo, dismetta gli stessi principi su cui è stata fondata pone un serio dubbio sulla sua stessa natura. Forse ci si è illusi che l’Europa sorta dalle cenere dei totalitarismi più nulla avesse a che fare con la sua precedente incarnazione di potenza coloniale e schiavista, quando in realtà il legame tra queste due realtà non è una lontana parentela, ma una sostanziale ereditarietà.

Dal 2008, la situazione europea è nettamente peggiorata. La crisi economica e politica che ha attraversato l’Unione non ha fatto che palesare ulteriormente la sostanziale mancanza di un principio di solidarietà all’interno della politica comunitaria. Ciò è particolarmente allarmante, se si pensa che la nozione di “solidarietà”, al di là dei suoi utilizzi prettamente retorici, costituisce uno dei cardini del progetto europeo. L’articolo 222 del Trattato di Lisbona (noto anche come “Clausola di Solidarietà”) è una chiara indicazione in questo senso. In esso, si dispone tra le altre cose che gli Stati membri agiscano congiuntamente, “in uno spirito di solidarietà”, qualora uno Stato membro che sia vittima di una calamità naturale o causata dall’uomo chieda assistenza.[4] La stessa enfasi sull’importanza del principio di solidarietà emerge in numerose iniziative europee, come la creazione del “Corpo europeo di solidarietà” che riunisce gruppi di giovani con l’obiettivo di costruire una società più inclusiva, prestare aiuto a persone vulnerabili e rispondere ai problemi sociali.[5] A discapito di queste iniziative, tuttavia, una concreta mancanza di solidarietà ha caratterizzato la reazione delle autorità europee ad alcuni dei fenomeni più drammatici verificatisi nel corso degli ultimi anni. Dalla crisi finanziaria che ha investito le economie più deboli dell’Unione alla rinnovata emergenza migratoria seguita al fallimento delle primavere arabe e del conflitto siriano, le istituzioni europee e gli attori politici che ne regolano le scelte sono stati spesso accusati di non essere solidali. Nel febbraio 2016 l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite ha espresso ufficialmente il suo biasimo nei confronti dell’Unione Europea per la sua incapacità di fronteggiare la crisi dei rifugiati.[6] Alcuni mesi dopo, il governo italiano ha proposto di sanzionare economicamente gli Stati membri che rifiutassero di prendere parte al programma di redistribuzione dei rifugiati varato da Bruxelles.[7] Questi fenomeni mostrano come due distinte forme di solidarietà siano latenti all’interno del contesto europeo. Da una parte, la solidarietà nei confronti di chi tenta a costo di enormi sofferenze di penetrare i confini europei, per sfuggire a situazioni di violenza e persecuzione. Dall’altra parte, la solidarietà tra gli stessi Stati membri dell’Unione, incapaci di assicurare quella collaborazione e quel sostegno “in uno spirito di solidarietà” che il Trattato di Lisbona dovrebbe aver sancito una volta per tutte.

La crescente polemica nei confronti di un’Europa sorda alle crisi umanitarie odierne è recentemente sfociata in denunce e prese di posizione che esulano dai semplici dibattiti istituzionali. In tal senso, i risultati del vertice di Parigi tra i ministri degli esteri di Francia, Germania e Italia e il commissario europeo per i rifugiati, Dimitris Avramopoulos, non ha stemperato la tensione, ma ha semmai ulteriormente esacerbato lo scontro, attestando la posizione europea in materia di sbarchi, caratterizzata sostanzialmente dalla volontà di limitare i flussi migratori, rendere più efficiente il processo di rimpatrio di immigrati clandestini e favorire una collaborazione in loco coi governi delle nazioni nordafricane da cui proviene il maggior numero di migranti. [8]
Prima ancora che il documento conclusivo del vertice fosse pubblicato, il 28 agosto 2017, è apparsa su openDemocracy – una global media platform particolarmente attenta ai dibattiti sulla natura della crisi europea – una lettera aperta in cui Franco “Bifo” Berardi dichiara la sua intenzione di dimettersi dall’advisory panel di DiEM 25: il movimento fondato nel 2015 dall’ex ministro delle finanze greco Yannis Varoufakis. I contenuti della lettera, apertamente accesi e provocatori, esulano dalla semplice questione migratoria e mirano direttamente all’Europa in quanto tale. “È tempo di comprendere che c’è qualcosa di difettoso nel nostro progetto di ristabilire la democrazia in Europa: questa possibilità non esiste. Un’Europa democratica è un ossimoro, essendo l’Europa il cuore della dittatura finanziaria mondiale. Un’Europa pacifica è un ossimoro, essendo l’Europa la patria di guerra, razzismo e aggressività. Abbiamo creduto che l’Europa potesse superare la sua storia di violenza, ma è ora tempo di riconoscere la verità: l’Europa non è altro che nazionalismo, colonialismo e fascismo”.[9]

È singolare che le decisioni prese durante un vertice politico limitato a un ristretto numero di Stati europei consenta di scagliare un attacco alla stessa idea di Europa, rievocando, ancora una volta, il fantasma del colonialismo. Ancora più singolare è la risposta che Varoufakis, a cui la lettera di Berardi è indirizzata, allega alla pubblicazione di quest’ultima. In essa si ricorda l’affermazione di Hannah Arendt, per cui quand’anche un solo tedesco fosse morto ad Auschwitz a causa della sua opposizione al nazismo, allora i tedeschi non sarebbero responsabili del nazismo. “La tua lettera – scrive Varoufakis – in cui denunci gli orrori perpetrati in nome dell’Europa […] offre agli europei la stessa possibilità di redenzione che l’unico tedesco morto ad Auschwitz di Arendt ha offerto al popolo tedesco”. [10] Davvero, viene da chiedersi, l’Europa e gli europei hanno bisogno di tale redenzione? A tal punto l’idea di Europa è segnata dal suo passato? La questione si fa ancora più spinosa se si pensa all’unicità che caratterizza la posizione europea, in questo frangente. A ben vedere, l’idea che sia esistito un “colonialismo europeo” non è esente da dubbi. Semmai, si dovrebbe parlare di colonialismo francese, inglese, spagnolo, ecc. Tuttavia, nonostante l’esistenza e la gravità di tali fenomeni, raramente si è messo in dubbio l’orgoglio e il senso di appartenenza che i cittadini di tali nazioni possono legittimamente provare per Francia, Inghilterra e Spagna. L’intero peso del colonialismo, la macchia che attende di essere ripulita, ricade su un’entità politicamente e culturalmente più debole, come quella europea. L’accusa di “eurocentrismo”, inoltre, sembra non trovare applicazione entro i confini dei singoli Paesi, nei quali la difesa della cultura nazionale è vista non come atto di prevaricazione, ma come semplice tentativo di valorizzare particolarità locali, senza cedere il passo a una globalizzazione universalizzatrice.

Riprendere in mano l’idea di Europa non può, d’altronde, significare obliterarne il passato. E il passato europeo è, di fatto, un passato di cui sovente non c’è da essere fieri. Riconsiderare il passato europeo non può significare, tuttavia, condannare l’Europa a un destino infausto, quasi che l’unico possibile futuro assuma le sembianze di un errore reiterato. Di questo ha parlato più volte Jan Patočka, che intitolava uno dei suoi ultimi scritti La storia ha un senso?. [11] Questa domanda non ha risposta, o meglio, l’unico modo per tentare di prendersene carico è formulando una seconda domanda, ben più radicale. Questa domanda è: l’umanità è disposta oggi a sobbarcarsi le colpe della nostra epoca? Tali colpe includono tutte le forme colonialismo e di sopraffazione, del presente e del passato, di cui nessun europeo può dirsi irresponsabile. Se la storia deve avere un senso, tale senso non risiederà in alcuna concezione filosofica tesa a sistematizzarne il corso. Dare un senso alla storia, significa per Patočka gettare uno sguardo su di essa senza protezioni, esponendosi agli avvenimenti drammatici che l’hanno caratterizzata, senza fare un passo indietro. Si tratta di una postura etica che si ritrova espressa in tutta la sua opera e che riecheggia più che mai nella sua scelta di aderire al dissenso politico nel suo paese. Assumere una prospettiva “post-europea” significa, per Patočka, precisamente questo: gettare uno sguardo retrospettivo sul nostro passato, giudicarne i corsi e ricorsi, e assumere responsabilità per ciò che è avvenuto e ancora sta avvenendo.[12] Solo così, sobbarcandoci il peso delle nostre azioni, potremo cominciare a riformulare i tratti di una nuova identità europea e a immaginare una nuova configurazione comunitaria.

Hannah Arendt sosteneva che la solidarietà nasce dalla comune sofferenza.[13] Solo a partire da un’esperienza profondamente negativa, gli essere umani sono in grado di inaugurare un nuovo agire ed eventualmente di rifondare il mondo. L’azione non nasce solo dalla volontà e dalla convinzione, ma anche dalla scossa negativa provocata dalle vicissitudini esistenziali con cui ciascuno si trova prima o poi a che fare. Credo che l’orgoglio europeo, se davvero può esistere, debba attraversare tutte queste scosse. Concretamente, per essere orgogliosi dell’Europa e dell’essere europei non sarà sufficiente basarsi su alcuna tradizione, inevitabilmente offuscata dagli avvenimenti del passato, ma solo su quanto è ancora possibile fare, a partire dalle crisi politiche e umanitarie che l’Unione Europea sta attualmente fronteggiando. L’orgoglio europeo non è qualcosa che si può ereditare. Non è un diritto acquisito. Semmai, si tratta di una condizione che va riaffermata continuamente, al costo di sobbarcarsi il peso del passato e le aspettative del futuro. In tal senso, interrogarsi sulla responsabilità europea può diventare l’unica via per assicurarsi quella redenzione che solo l’Europa stessa, a certe condizioni, può decidere di impartirsi.

Note:

[1] M. Kundera, The Tragedy of Central Europe, in “The New York Review of Books”, 26 aprile 1984, pp. 33-38.
[2] F. Fanon, I dannati della terra (Einaudi: Torino, 1971).
[3]https://web.archive.org/web/20080705191639/http://icmc.net/pdf/unhcr_stancom_08_ngo_stmt.pdf
[4]http://www.lisbon-treaty.org/wcm/the-lisbon-treaty/treaty-on-the-functioning-of-the-european-union-and-comments/part-5-external-action-by-the-union/title-7-solidarity-clause/510-article-222.html
[5]https://europa.eu/youth/solidarity/mission_it
[6]http://www.europarl.europa.eu/news/en/news-room/20160303IPR16957/moment-of-truth-to-reaffirm-eu-values-urges-un-high-commissioner-for-refugees
[7]http://euranetplus-inside.eu/italy-ready-to-bill-lack-of-eu-solidarity/
[8]http://www.huffingtonpost.it/2017/08/27/esclusiva-huffpost-il-documento-integrale-del-vertice-di-parigi-sullimmigrazione-primo-importante-riconoscimento-del-nuovo-approccio-del-governo-italiano_a_23187222/
[9]https://www.opendemocracy.net/can-europe-make-it/yanis-varoufakis-franco-berardi/resignation-letter-from-franco-bifo-berardi-to-ya
[10]Ibidem.
[11] J. Patočka, “La storia ha un senso”, in Saggi eretici sulla filosofia della storia (Einaudi: Torino, 2008).
[12]Si veda in proposito J. Patočka, Europa e post-Europa (Gangemi: Roma, di prossima pubblicazione).
[13] H. Arendt, Sulla rivoluzione (Einaudi: Torino, 2006).

Francesco Tava

Analisi di Francesco Tava, Associate Professor di Filosofia presso la University of the West of England di Bristol

29 settembre 2017

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