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Responsabilità: essere presenti al proprio tempo

di Laura Boella

La responsabilità è diventata nel pensiero contemporaneo, in particolare quello che si è interrogato sulle conseguenze distruttive della capacità di intervenire sulla vita umana e sull’ambiente, la radice generativa dell’etica. È importante sottolineare l’importanza del fatto che gli stimoli più fecondi della riflessione etica contemporanea vanno nella direzione di affermare la responsabilità originaria, l’emozione dell’incontro con l’altro, l’impossibilità di non rispondere al suo appello, accentuando al tempo stesso l’unicità e insostituibilità dell’io che deve farsene carico. Questo è molto chiaro in Lévinas. Da un soggetto autonomo, padrone di sé e padrone di trasformare il mondo, si è passati a un soggetto in relazione, legato agli altri e al tempo stesso consapevole di essere un campo di forze sottratte al suo controllo e governo diretto: potere, inconscio, meccanismi genetici e neurobiologici, appartenenze etniche e culturali non scelte e non volute, processi globali e geopolitici. Parlare di responsabilità vuol dire però che questo soggetto c’è, risponde, si fa carico della vulnerabilità di esseri che hanno bisogno di cura, della fragilità che ormai si estende alla natura e all’insieme del vivente e infine si prende cura del mondo come spazio dell’essere insieme.

È noto che la responsabilità oggi può essere un carico molto pesante e sfuggente che rischia di trasformarsi in fatalismo o in senso di impotenza. È vero che si è responsabili del proprio corpo, delle proprie emozioni, del proprio volto, di ciò che si è (o non si è) diventati, delle proprie azioni e omissioni, del proprio corredo genetico, del mondo che lasceremo in eredità a figli e nipoti. Come ha notato Ricoeur,[1] la proliferazione degli usi copre una vastità di occorrenze tale da renderla un peso con il rischio di capovolgerla in fatalismo. “Quando si è tutti colpevoli, in fin dei conti nessuno lo è”, scriveva Hannah Arendt.[2]

L’espressione “essere presenti al proprio tempo” permette di fare un passo ulteriore. In alcune pensatrici, ma anche in pensatori come Jan Patočka e Karel Kosik, si trova la figura della presenza al proprio tempo, del coraggio di esserci. In forma esplicita in Jeanne Hersch, che definiva così la sua posizione di filosofa “senza vocazione”, ossia senza la “voce” oracolare e venerabile dei grandi maestri Heidegger e Jaspers. In forma implicita, ma in posizione centrale, la si trova nell’incrocio verticale (a croce) di Necessità e Bene in Simone Weil. Nella riflessione di Hannah Arendt essa compare come la diagonale del pensiero che modifica alcuni punti del brano di Kafka intitolato Egli (1920). In Patočka e Kosik essa assume una forma esigente, quella di un “sacrificio” ripensato al di fuori della sua accezione eroica e sacrificale.

Sarebbe bello percorrere queste vie il cui valore “eretico” è ancora tutto da scoprire e da ereditare. Mi limiterò a disegnarla, intrecciando alcuni fili dei miei scritti recenti, perché si tratta di una figura viva che propone un rapporto completamente diverso da quello oggi prevalente tra gli avvenimenti storici e politici e la vita vissuta. Raccogliendo gli stimoli che vengono dalle pensatrici e dai pensatori nominati, la presenza al proprio tempo ha un valore simbolico strettamente implicato in posture e movimenti corporei incarnati in un singolo, in molteplici collocazioni sociali, culturali, storiche aperte non all’azione eroica, ma calate nelle situazioni di vita quotidiana sulle quali incidono gli eventi centrali dell’epoca contemporanea.

Due immagini, che fanno parte della “seconda” realtà in cui tutti ormai viviamo parte del nostro tempo, mostrano con eloquente chiarezza quello che per me è il nodo di fondo. I pensatori e le pensatrici citati potrebbero far pensare che “presenza al proprio tempo” sia un’ammirevole partecipazione ai problemi dell’epoca. Al contrario, io intendo momento essenziale della responsabilità come presenza al proprio tempo il mettersi al centro della contraddizione tra comportamenti individuali e processi macroeconomici e tecnologici, istituzioni, bisogno di credere, speranze singolarmente stravolte.

Un' immagine, scattata senza sapere che cosa stava effettivamente riprendendo, dal fotografo egiziano Islam Osman ritrae un uomo, l’avvocato Sayed Abu Elela, che abbraccia l’attivista del Partito dell’alleanza socialista popolare Shaimaa al-Sabbagh ferita a morte da un proiettile di gomma sparato da 15 metri da un poliziotto con il volto coperto durante una protesta pacifica svoltasi al Cairo - la “marcia dei fiori”, il 24 gennaio 2015, organizzata per ricordare le centinaia di dimostranti uccise durante la rivolta dei gelsomini che sconvolse il mondo arabo nel 2011. Shaimaa è in piedi insanguinata: l’uomo che la abbraccia è in ginocchio e sta tentando di portarla in salvo. Il poliziotto armato è a pochi metri. I resoconti ufficiali dicono che i colpi furono sparati accidentalmente. La foto di Shainaa morente divenne un simbolo. Al Sisi volle dare una dimostrazione di giustizia al pubblico internazionale, arrivò a parlarne come se fosse una “figlia”. Il poliziotto fu processato e condannato a 15 anni di carcere. La Corte di Cassazione ha poi annullato la condanna.

La foto ritrae una scena di compassione che ha alcuni tratti non convenzionali: il buon samaritano di turno non si china sul corpo ferito steso a terra della vittima, si piega sulle ginocchia per tenerla in piedi, diritta. Lei è ferita gravemente, ma sta ancora in piedi, sostenuta da lui, che è in ginocchio. L’abbraccio stringe due individui in una relazione che non mette di fronte attività/soccorso e passività/sofferenza, non contrae la storia di lei e di lui nel punto in cui vita e morte si toccano. Il loro abbraccio, in cui si legano due vite e due forze, parla di molte cose: una condotta individuale di aiuto, la lotta, la commemorazione con i fiori in mano, il rischio assunto in prima persona (Shaimaa non volle scappare appena i poliziotti iniziarono a sparare; aveva paura solo per suo figlio di 6 anni. Quelli che chiesero aiuto alla polizia furono arrestati). Pochi metri indietro c’è un poliziotto armato. La foto parla dunque non solo della compassione e dell’aiuto, ma del loro toccarsi in un punto con la violenza “preterintenzionale” di un giovane poliziotto. La foto ritrae una contraddizione, quella che nel mondo contemporaneo vede di fronte l’individuo in relazione, che risponde all’altro, e potere, guerre, politiche che negano il prendersi cura, la responsabilità per l’altro e fanno di tutto per renderle impossibili.

Per capire meglio, si può avvicinare la postura eretta della donna ferita a morte a un'altra foto, scattata a Istanbul, a Gezi Park, il 23 maggio 2013, e diventata anch’essa virale. Questa non è una scena di compassione, ma a prima vista il ritratto per nulla convenzionale di uno dei canoni dell’etica classica: la rettitudine che, com’è noto, si lega a un atteggiamento del tutto individuale, la postura eretta. C’è una lingua, il ceco, che al verbo “stare in piedi, stare fermi” (stát) aggiunge il significato di “sostenere qualcuno, prendere le parti, stare accanto”.[3] Qui non c’è nulla dell’imperiosa affermazione del soggetto autonomo, dell’individuo che controlla le sue emozioni, non c’è nulla né di repressivo, né di autorepressivo. Al contrario, la postura eretta, in tutto il suo valore antropologico, appare il gesto di coraggio di chi non piega la schiena. La ragazza con il vestito rosso resta in piedi sotto il getto dell’idrante. Andrà in un bar ad asciugarsi e tornerà tra i manifestanti e sotto l’idrante. L’eredità dell’individualismo e delle sue fonti giusnaturalistiche qui appare in tutto il suo carattere libertario, come ricorda Ernst Bloch che affidò all’”incedere eretti” - opposto all’essere “trattati come cani”-, nel libro pubblicato subito dopo la costruzione del Muro di Berlino (1961), la rivendicazione dei diritti civili, i “diritti soggettivi” della tradizione giuridica (libertà di pensiero, di espressione, di movimento) conculcati nei regimi del socialismo burocratico dei paesi dell’Est.[4] Da sola la ragazza resiste all’idrante, ma il suo gesto non ha niente dell’affermazione eroica (non volle uscire dall’anonimato), è un’affermazione di orgoglio e di dignità in relazione. Contribuisce a eliminare qualsiasi sospetto di individualismo eroico, l’osservazione che stare fermi di fronte a qualcosa di estraneo (l’idrante) implica resistere all’impulso della paura e della fuga. Stare fermi non ha niente di individualistico perché implica stare nel punto d’incrocio e di scontro tra la propria singolarità e ciò che accade. È una forma di coraggio antitetica alla sfida, è il coraggio di non fare nulla, appunto di stare fermi. Esso ispirò la performance di alcuni attori che stettero per molte ore immobili in piedi a Gezi Park testimoniando la dignità dei manifestanti.

Le immagini di due avvenimenti contemporanei sono interessanti perché combinano elementi eterogenei. Innanzitutto, le foto sono diventate “virali” sul web, appartengono quindi alla dimensione di socialità che viene considerata una sorta di condivisione in tempo reale di avvenimenti, drammi, sofferenze individuali e collettive. D’altra parte, non le si può liquidare come una delle infinite e passeggere ondate emotive che attraversano la rete. Certo, il web non fa che creare immagini virali, una cancella l’altra, ma questo non legittima in alcun modo la loro riduzione a mera realtà virtuale. Al contrario, si tratta di documenti che, guardati con attenzione, non ispirano semplicemente la compassione che agisce come risposta a distanza che esonera dal confrontarsi con realtà spiacevoli.

Le due immagini non mettono di fronte alla convenzionale antitesi di egoismo e altruismo. La scena è diversa: si tratta di esperienze in prima persona, di un essere lì in presenza con il corpo e con la mente, patendo, agendo, nel punto d’incrocio, di contatto con il potere, la violenza, la distruttività.

Centrale nella figura della “presenza al proprio tempo” è un soggetto inerme, anonimo perché in un modo o nell’altro si trova in un punto spostato rispetto alla sua professione, alla sua opera, al suo ruolo sociale. Esperienze estreme hanno portato a pensare questa figura nei pensatori, pensatrici ricordati sopra, ma anche in una poliziotta tedesca, in padre Kolbe, nell’amica di Kafka Milena Jesenska. Patočka morì dopo un interrogatorio della polizia, Kosik visse da sepolto vivo nella Praga dopo il ’68, perché aveva rinunciato ad andare in esilio per esserci, per stare lì, per insegnare agli studenti e non pubblicare più. È lui peraltro a ricordarci il gesto della poliziotta tedesca che gli permette di dare notizie ai suoi familiari durante la prigionia, insieme a quello di padre Kolbe e a quello di Jan Palach. Lo stesso Kosik ci ha permesso di sottrarre Milena Jesenska all’ombra di Kafka e di considerarla la vera Antigone del nostro tempo.[5] Arendt nella figura di Egli di Kafka parla della displaced person che fu lei stessa.

Esse invitano tuttavia a scoprire l’eccezionalità, l’urgenza che spesso non vogliamo vedere nella nostra normalità, che ci pone di fronte a situazioni impreviste in cui la sicurezza del ruolo e del sapere vacilla, anche solo per il fatto che non sappiamo come integrare nella nostra vita e in quella dei nostri figli e nipoti un attentato feroce, come quello di Manchester, un’improvvisa crisi finanziaria che erode i nostri risparmi, il repentino mutamento della scena politica che scuote le nostre certezze. Ognuno di noi sta al centro della contraddizione e disparità tra forze e processi sovranazionali, impersonali e onnipotenti e la piccola breve vita, l’ambito più o meno ampio di esperienze che la contraddistinguono. In questa posizione si può essere schiacciati, così come si può sopravvivere, confidando sulle difese e le barriere protettive derivanti dall’appartenenza di gruppo, dal reddito, dalle complicità con chi detiene il potere.

È anche possibile avere il coraggio di riconoscere di essere il bersaglio, che quelle forze sono puntate contro di noi, fanno parte dolorosamente o meno della propria esperienza vissuta (il contrario della deresponsabilizzazione: il sistema ecc.) Questo riconoscimento implica che la globalizzazione non accade solo nei templi della finanza o degli uffici delle multinazionali, ma nei barconi e nelle strade che percorriamo tutti i giorni, nei microambienti di vita quotidiana nostri e altrui, che il web non è un mondo “altro” in cui insultare e mettere alla berlina non produce effetti reali, ma il web e i social sono annodati con la nostra vita quotidiana. Chi ha il coraggio di ammettere questo, riconosce di esserci e quindi di esercitare con la sola esistenza una forza di contrasto, che riempie il divario tra il singolo e il mondo. Questo tipo di responsabilità è drammatica perché ha dentro di sé un vero e proprio rovesciamento della passività naturale, delle appartenenze non scelte e non volute che stanno al fondo di ogni agire.

È evidente che questa figura di presenza al proprio tempo implica il viversi non come un elemento della massa degli utenti dei social network, non come uno delle migliaia degli acquirenti dell’ultimo gadget tecnologico, non come la “vittima” della burocrazia europea o altro, ma come colui o colei la cui vita, le cui emozioni, le cui azioni e omissioni sono attraversate da quei processi. E questa è già responsabilità, responsabilità come modo di stare al mondo, libertà incarnata e situata in un soggetto alle prese con le sue relazioni, con i vincoli biologici ereditari, con le circostanze sociali e che implica diversi livelli di impegno personale e un lavoro di articolazione di ciò che ritiene importante.

Un soggetto che sa di essere al centro della contraddizione, esposto agli urti con ciò che minaccia di schiacciarlo, non si farà irretire dalla promessa di condivisione e di “comunità di destino” che i media e purtroppo alcune star della scienza e della filosofia, oltre a molti miliardari della Sylicon Valley, ritengono legata alla partecipazione alle emozioni colletttive, ma poco impegnative e di breve durata, vissute sulle piazze virtuali. La responsabilità implica un dislivello strutturale, che rende capaci di de-cidere, di tagliare la sequenza causale, introducendo in essa l’anomalia della propria presenza al mondo, della propria esistenza. Interrompere non è la stessa cosa di “poter fare altrimenti”, è introdurre un elemento indisponibile a essere riportato nello schema generale, che non può che sommuovere una struttura che sembra apparentemente inattaccabile, monolitica. Nasce così una prassi nuova, un movimento obliquo (uscire dalla fila, andare nella direzione opposta, ma anche non fare niente, stare fermi) che diverge dalle direttrici dei macroprocessi.

La responsabilità come presenza al proprio tempo in molti modi nasce all’interno della fuga inarrestabile del tempo umano, della labilità di un presente che si eclissa in un batter d’occhio. Essere presenti al proprio tempo implica allora la proposta di un modello molto complesso di elaborazione del passaggio, sempre tormentato, dall’essere puri spettatori a attori. In particolare, essa implica una riscrittura concreta delle forme dell’agire umano e prospetta la possibilità di un non sottrarsi che cambia le regole del rapporto tra individuo e processi storici e politici. Al posto di una mera sproporzione tra l’illimitatezza della globalizzazione, l’infinità senza confini della rete, la velocità dei flussi, e la piccolezza dell’individuo, subentra il limite, l’interruzione, la deviazione prodotti dall’incrocio tra vita singola e processi. Non più lo scontro tra assoluti – individualismo/potenze globali – ma un movimento interno alla realtà che la apre ad altro. I piani del reale, che i grandi meccanismi costringono in una gigantesca reductio ad unum, vengono separati, la realtà riacquista la sua ricchezza e stratificazione, la sua molteplicità di piani. Il che è lo stesso di parlare di vittime che non si lasciano degradare alla pura passività, rifiutano il conteggio di cadaveri, di affamati, di disoccupati, di sconfitti, fuoriescono dalla logica della sofferenza e dell’umiliazione, ma anche da quella dei santi e degli eroi, e agiscono come forza di contrasto, revocando la totalizzazione sia del male sia del bene.

La presenza al proprio tempo può prendere forme tra le più diverse: da quella dello studio, della ricerca, del mettere al mondo un figlio, di compiere un gesto di aiuto, di fare bene una lezione, di guardare in faccia ciò che accade senza accontentarsi di spiegazioni preconfezionate, di ridare alle parole il loro vero significato, di ricorrere all’umorismo. Molteplici sono le forme per scompaginare le carte, per far ruotare sul suo asse il piano della realtà del potere e del suo linguaggio, della sua opacità e degli anestetici con cui essa viene resa irriconoscibile, aprendolo a un piano ulteriore, in cui le carte si rimescolano e si apre lo spazio di altri valori e altri comportamenti. La sua misura e la sua responsabilità non stanno nell’abbozzo di un gesto straordinario, bensì nella risonanza, nella continuazione, nella ripresa all’interno delle molteplici forme dell’agire e del pensare, della pazienza, della sincerità, della fedeltà, della generosità e dell’accoglienza.


NOTE

[1] P. Ricoeur, “Il concetto di responsabilità. Saggio di analisi semantica”, in Il giusto, a cura di D. Iannotta, SEI, Torino 1998, pp, 31-46, in part. 31.

[2] H. Arendt, “Responsabilità collettiva”, in Responsabilità e giudizio, A cura di J. Kohn, Einaudi, Torino 2010, p. 126.

[3] La mia posizione, ampiamente argomentata nel libro Le imperdonabili. Milena Jesenská, Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Cristina Campo, Mimesis, Milano 2013, dissente dalla tesi espressa da A. Cavarero, Inclinazioni. Per una critica della rettitudine, Cortina, Milano 2014.

[4] Vedi E. Bloch, Naturrecht und menschliche Würde, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1961, tr. it. Giappichelli, Milano 2005.

[5] Vedi K. Kosik, “Il ragazzo e la morte” (1997) e “Il secolo di Grete Samsa” (1992), in Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia. Saggi di pensiero critico 1964-2000, a cura di G. Fusi e F. Tava, Mimesis, Milano 2013, pp. 131-168, pp. 201-211.

Laura Boella, docente di Filosofia morale all'Università degli Studi di Milano

Analisi di

13 giugno 2017

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