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Gli "uomini buoni" di Bosnia

protagonisti del libro di Svetlana Broz

Testimonianze raccolte da Svetlana Broz nel libro I giusti nel tempo del male. Testimonianze dal conflitto bosniaco (i nomi sono falsificati o omessi per ragioni di sicurezza)

Testimonianza di Hamid Dedovic, Ilidža, ottobre 1998
Hamid è un musulmano bosniaco. Allo scoppio del conflitto con i serbi, rimane al suo paese, Ilidža, perché non crede che le cose andranno tanto male. Si sbaglia. Un giorno, sei uomini barbuti entrano in casa sua e si mettono a maltrattare lui e la sua famiglia. Una vicina cerca di difenderli ed è maltrattata anche lei. Il peggio però deve ancora venire. I miliziani portano Hamid nel luogo dove vengono fatti radunare i musulmani. È un luogo di uccisioni e di torture. Hamid si salva perché un suo amico, Bora, interviene presso le guardie, chiedendo il suo rilascio e sfidandole a uccidere lui, serbo, al posto dell’amico musulmano. Hamid poi supererà incolume il conflitto grazie ai serbi della località dove riesce a fuggire, Buca Potok.

Testimonianza di Saban Efendic
Saban Efendic è un musulmano di Sarajevo. Ha trentotto anni quando viene catturato da soldati di etnia serba e inviato al lavoro obbligatorio. È trattato duramente e posto sotto costante minaccia: se scappa, tutti i membri della sua famiglia saranno uccisi. I guardiani sono serbi che hanno rifiutato di combattere e che credono di sorvegliare i musulmani catturati in combattimento, finché Mirko, uno di loro, scopre la verità e stabilisce un rapporto umano, di rispetto, con il musulmano costretto ai lavori forzati.
Un altro serbo che aiuta Saban è Dane, un alto funzionario della polizia. Non solo gli fa restituire i generi di prima necessità che alcuni cetnici gli hanno rubato, ma controlla sempre che non venga maltrattato e lo invita a raggiungerlo a casa nel caso di bisogno. Quando si presenta l'occasione, lo ospita e lo aiuta a fuggire dall'altra parte della città. “Io sono contrario ai loro metodi - gli spiega riferendosi ai soldati che compiono violenze contro i musulmani. - Io sono un fottuto serbo e combatto per una fottuta Republika Sprska ma non nella maniera in cui lo fanno loro. Se tu fossi dall’altra parte, con un fucile puntato su di me, io ti farei la guerra, ma in questo modo no!”. 


Testimonianza di Zorica Baltic
Zorica Baltic è sfuggita all’inferno di Mostar grazie a persone croate e musulmane. Il 2 agosto 1992, dei soldati hanno fatto irruzione nel suo appartamento di Mostar uccidendo a bruciapelo suo marito. Lei terrorizzata ha cercato di bussare alle porte di tutti i vicini, ma solo Debo Vajovic e sua moglie l’hanno aiutata. Il giorno dopo è venuto a farle visita Andelko Filipovic, un croato che era stato suo vicino di casa anni prima. Quest’uomo, sinceramente addolorato per la scomparsa del signor Baltic, in mezzo all’ostilità di tutti ha il coraggio di provvedere al suo funerale e a ospitare la vedova. Un altro croato, Ivica Federcija, che ha lavorato per Zorica anni addietro, la ospita ben quattordici volte in venti giorni, e infine interviene per aiutarla la dottoressa musulmana Meliha Imamovic che ne organizza il ricovero allo scopo di nasconderla, con l’appoggio di una collega psichiatra. L'unica condizione è che Zorica non si alzi dal letto per ragioni di sicurezza.

Testimonianza di Iljia Konjic
Nel conflitto bosniaco si fa durissima anche la vita dei croati, da molti chiamati “ustascia" anche quando non sono stati personalmente implicati nel passato fascista della regione e cercano solo di vivere la propria quotidianità in quel che rimane della Jugoslavia. Tutte le parti in lotta istituiscono campi di concentramento per i nemici ed è in uno di questi che Iljia Konjic, un camionista croato padre di sei bambini, assiste a pestaggi e torture di persone sottratte alla vista dei pochi osservatori stranieri ammessi a documentare la guerra. Un giorno Iljia vede un uomo, Dragan Peric, fare i nomi di tutti gli internati agli ispettori della Croce Rossa, un gesto coraggioso e capace di salvare molte vite, che sarà poi punito a bastonate dagli aguzzini.

Testimonianza di Nura Mehmedbegovic
Nura Mehmedbegovic è una musulmana bosniaca malata di tumore al cervello. Ha un medico croato, Marko Cigler, che chiama “zio Marko” o anche “padre Marko” per affetto. Non gli deve solo le cure in tempo di pace, ma anche la salvezza in tempo di guerra, quando una donna sola, musulmana e per di più con un cognome importante, quello dei fondatori di una città rivendicata dai serbi, rischia veramente la vita. Padre Marko o “Japek” Marko come si dice in serbo-croato, infatti, non se l'è proprio sentita di lasciare questa donna senza assistenza e senza le iniezioni giornaliere che la tengono in vita. Organizza anche il passaggio di Nura in un'altra zona di Sarajevo quando necessita di cure ospedaliere e lo fa sotto la minaccia dei serbi di lasciarlo “più corto di una testa” se il trasferimento fosse definitivo per il rifiuto dell’ammalata di tornare nella zona infernale in cui vivono.
"Japek" Marko non si lascia intimidire e aiuta non solo Nura, ma chiunque abbia bisogno: offre a una vecchietta il poco pane che ha, un chilo di sale a un’altra donna. Aiuta tutti senza guardare alla nazionalità e con le lacrime agli occhi, soffrendo per loro. Per questo dopo il ricovero, nonostante i rischi di morire uccisa o di venire deportata, Nura torna senza esitazioni all’alloggio in cui il medico la ospita. In proposito dice a Svetlana Broz: “E anche se sapessi con certezza che tornando andrei incontro alla morte continuerei per la stessa strada, con l’anima in pace, senza paura, cosciente che sto facendo una cosa che quell’uomo si merita: la vita per la vita, l’umanità per l’umanità”.

Testimonianza di Serafina Lukic
Serafina Lukic, croata, con la guerra vede il suo mondo crollare. Il cibo che ha in casa le basta appena per una settimana. Il fratello, disabile, vive in un altro quartiere e la figlia, gravemente malate, dipende da lei. Durante l'assedio, Serafina deve sfamare sei persone che abitano in tre quartieri diversi. Per fortuna, tuttavia, l’intero mosaico delle etnie jugoslave si muove per dare a Serafina e alla sua famiglia cibo, conforto, legna e vestiti. Lo fa suor Dinka Galic della chiesa cattolica di Marijin Dvor, che le dà cibo e medicinali per i suoi cari, lo fa il comandante dei serbo-bosniaci Enver Šehovic, che per un mese e mezzo la aiuta procurandole cibo quotidianamente, lo fanno i membri del Centro ebraico Albert Abinum, Nada Levi ed Ela Kabiljo. Un giorno Serafina deve attraversare Sarajevo per portare del cibo al fratello. Il cammino è irto di pericoli, ma un uomo la carica sul proprio taxi e la conduce a casa sana e salva. Più tardi scoprirà che è Mile Plakalovic, un tassista serbo che ha già soccorso molte persone, per esempio raccogliendole quando sono ferite dai cecchini e portandole in ospedale.
Lei ora vuole ricordare tutti questi Giusti: Mile Plakalovic, che per i suoi passaggi in taxi è già diventato famoso e anche gli altri che, forse, lo sono solo per lei.

Testimonianza collettiva su Anita Zekar
Anica Zecar è una vecchia partigiana. Durante la seconda guerra mondiale agiva in clandestinità, quindi è in grado di affrontare situazioni difficili. Quando la coglie il conflitto bosniaco, è malata di Parkinson, ma pensa di potersela cavare e non esita a rimanere da sola mentre marito e figli fuggono dal quartiere Grbavica di Sarajevo alla località di Zrenjanin, in Serbia.
Come ai vecchi tempi aiuta chi ha bisogno a sfuggire alle persecuzioni. Fra i suoi salvati ci sono un musulmano, un croato, un albanese del Kosovo e due serbi. Anica li fa passare per serbi o per musulmani alla bisogna e usa uno speciale codice per segnalare loro l’arrivo di soldati.
Anche i suoi vicini cercano di dare una mano: c'è una farmacista che le porta una medicina contro la sua malattia, un'altra vicina che le ha fa montare finestre nuove dopo un bombardamento, Josip che le porta i pacchi degli aiuti umanitari e Ismet che si è procurato un forno con il quale sua moglie cucina per tutti e che porta su e giù dalle scale le pentole di Anica costretta a letto. In questo condominio tutti si aiutano reciprocamente ancora oggi e una persona che Anica ha soccorso la riconosce e le presenta addirittura un suo salvato del 1942. Anche al Centro ebraico c’è solidarietà per questa vecchia partigiana: Ana Klak l'ha iscritta a un programma di sostegno alle persone anziane, ammalate e sole.

Testimonianza collettiva su Jole Musa
Durante l’aggressione croata di Mostar, il dirigente pubblico Jole Musa non vuole andarsene dalla propria casa perché ciò equivarrebbe a una resa e rifiuta anche l'offerta di fare il sindaco della città in guerra, temendo si tratti di una mossa per spianare la strada al nazionalismo più esasperato. Per il suo rifiuto è incarcerato e subisce diversi attentati.
Un giorno, sotto casa sua, passa una colonna di profughi, che non sanno dove andare a rifugiarsi. Jole ne ospita una trentina offrendo loro riparo per la notte e la mattina dopo suo figlio più giovane distribuisce queste persone fra le case di parenti e amici.

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