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Dialogo sulla Memoria con Svetlana Broz

dalle guerre jugoslave a oggi

In occasione della Giornata della Memoria abbiamo voluto avere con noi Svetlana Broz, cardiologo bosniaco, nipote del generale Tito (che fu dal 1953 al 1980 Presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia), onorata come Giusta al Giardino di Milano per il suo impegno a favore della riconciliazione durante la guerra dell’ex Jugoslavia. Sul palco le abbiamo rivolto qualche domanda, partendo da ciò che accadde in quel conflitto, per capire insieme ai ragazzi presenti in sala quali possono essere i segnali premonitori del Male e come contrastarli. Ecco le sue parole.

La Jugoslavia era una società multietnica, nella quale però, a un certo punto, l’odio è esploso, diventando guerra e genocidio. Come è successo?

Vorrei prima di tutto contestualizzare. In Jugoslavia convivevano più di 120 gruppi etnici differenti. Cinque anni prima che scoppiasse il primo conflitto, i politici orchestrarono nei confronti della popolazione un vero e proprio metodo di controllo delle menti, attraverso i media. Lo fecero raccontando ogni giorno menzogne su un passato comune, distorcendo la storia, intimidendo, convincendo le persone che il loro vicino fosse il loro nemico. Purtroppo, se migliaia di volte ogni giorno si ascolta la stessa bugia, si inizia a crederci. È un insegnamento che ci viene dalla Seconda guerra mondiale, ai tempi di Hitler, quando Joseph Goebbels diceva “ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”.

Dopo questi cinque anni d’indottrinamento, le persone hanno iniziato ad avere paura degli altri. Ciò è stato sufficiente ai politici per trasmettere l’idea che la guerra fosse possibile, per raggiungere l’accettazione di una necessità del conflitto da parte della popolazione. Fu una manovra di paura di massa, che però non era ancora odio. La paura è l’ultimo passo prima dell’odio. A tutti i giovani presenti oggi voglio dire: non lasciatevi mai intrappolare nella spirale di Male che ci porta a provare odio nei confronti dell’altro.

In Jugoslavia, in quel modo, è iniziata la guerra, sotto la presidenza di Milošević e per mano dalle forze militari. Le persone tuttavia - e io lo so perché sono stata in Bosnia per due anni durante la guerra e poi ci ho vissuto per molto tempo - non identificavano i loro vicini come i responsabili dei primi bombardamenti, dei primi morti e delle prime case bruciate. Si ripeteva sempre la stessa trama, una storia di convincimento che ha avuto luogo in Croazia, in Bosnia e nelle altre zone colpite: la paura convinceva le persone a pensare che ci fosse un gruppo di perpetratori e uno di vittime, ed era sempre qualcuno venuto da fuori ad avere iniziato la violenza, qualcuno di un’altra etnia. Si è trattato di un abuso di potere, i governi hanno voluto la guerra, soprattutto in Serbia e in Croazia, e hanno lasciato che le persone si convincessero che era necessaria. Fortunatamente però, nella maggioranza dei casi, non sono riusciti a instillare quell’odio totalizzante che volevano.

Come è possibile che alle porte del 21esimo secolo sia stata fatta una guerra sulla base di un qualcosa che non era odio ma era paura? Eppure è successo in Jugoslavia. Non bisogna temere l’altro, bisogna essere aperti, discutere se si hanno dei problemi. Perché la paura porta all’odio, un sentimento che distrugge in primo luogo noi stessi, non chi odiamo.

Avresti mai immaginato, prima che scoppiasse la guerra, che si sarebbe arrivati fino a quel punto? E oggi, riflettendo su quello che è successo, potresti indicarci quali erano, se c’erano, i segnali premonitori del Male e dell’odio?

Onestamente no. All’ultimo anno della scuola di medicina - l’ho scritto anche nel mio libro - mi sono rifiutata di seguire il corso di chirurgia di guerra, perché pensavo che nel mio Paese non sarebbe mai più scoppiato un conflitto. Questo succedeva 12 anni prima della prima guerra in Jugoslavia. Mi sbagliavo di grosso. Alcuni segnali ci sono stati. Dopo che ho capito che i media pubblicavano delle falsità, distorcevano la realtà, col senno di poi, posso dire che alcuni sintomi di quello che sarebbe successo avrei potuto riconoscerli, se ne avessi avuto esperienza precedente o se qualcuno mi avesse raccontato che era già accaduto qualcosa di simile nel suo Paese, ad esempio. Adesso che so, posso mettere in guardia voi: state attenti quando leggete o vedete qualcosa sui media, chiedetevi se sia vero o meno, io purtroppo in quel momento non sapevo che avrei dovuto farlo.

Oggi cerco di osservare l’uso dei mezzi d’informazione un po’ in tutto il mondo e mi sembra abbastanza chiaro che, praticamente ovunque, ne si faccia un uso sbagliato. Non succede sempre ovviamente, ma sono molti i politici influenti che cercano di trarre vantaggio dai media per raggiungere i propri scopi. Voi, che siete gli elettori del domani, avete una responsabilità: dovrete decidere per chi votare e dovrete pensare bene in chi riporre la vostra fiducia, perché potreste lasciarla nelle mani sbagliate, in quelle di qualche politico che avrà un’influenza dannosa su di voi. La Jugoslavia è un esempio che ciò può accadere.

Pensi che la gente fosse consapevole che, dalle parole di odio verso le diverse etnie e religioni, si potesse arrivare a una guerra? E cosa può insegnare oggi la guerra della Jugoslavia ai giovani europei?

Dobbiamo sempre riflettere sul passato e usare l’esperienza per cercare di non ripetere gli stessi errori in futuro. Le persone non devono avere paura dell’altro, a prescindere dall’etnia, dalla provenienza, dalla religione o dal credo politico. Bisogna accogliere tutti gli essere umani ed essere aperti al dialogo: qualsiasi negatività va discussa altrimenti il silenzio porta all’odio. Sembra che molti politici in Europa stiano sfruttando la paura a proprio vantaggio e chi può sapere come finirà. Potrebbe sfociare in una guerra, in violenza, in aggressioni verso le minoranze, verso i profughi, le persone potrebbero essere espulse da un Paese o rinchiuse nei campi di concentramento com’è successo nella Seconda guerra mondiale o recentemente nella guerra dei Balcani. Nessuno può prevedere quello che accadrà ma tutto questo è assolutamente inaccettabile per ogni persona morale e civile. Le questioni economiche sono importanti è vero, ma ci sono cose che lo sono di più, come il cercare di opporsi ai pericolosi meccanismi di odio verso il diverso sui quali vengono costruite strategie politiche.

La Svezia, come la conosciamo oggi, è un Paese estremamente sviluppato e democratico. Io però ci sono stata dieci anni fa, in occasione di una mostra sulla Seconda guerra mondiale che raccontava le azioni e l’atteggiamento degli svedesi rispetto a quel conflitto. C’erano foto di persone che manifestavano, che mostravano cartelloni con scritto: “noi non vogliamo gli ebrei”. Gli svedesi non volevo accettare quelle persone disperatamente in cerca di un rifugio, perché avevano paura che avrebbero perso il loro posto di lavoro, che ci sarebbe stata troppa competizione, che le risorse non sarebbero bastate e altro ancora. C’era anche un’immagine del Primo ministro che stringeva la mano a Hitler. Le persone sembravano contente di poter fabbricare uniformi per i soldati. La Svezia è quindi un Paese che può dimostrare come dagli errori del passato si possa imparare a diventare migliori, rifiutandosi di accettare chi cerca di convincerci che per il nostro interesse possiamo rifiutarci di attenerci ai nostri principi di umanità e di aiutare chi ha bisogno.

Hai lasciato il camice e lo stetoscopio per il registratore. Perché? Che cosa ti ha spinto a diventare testimone delle storie di Bene?

Nel primo anno di guerra sono stata volontaria come cardiologa per aiutare le persone che in quel momento avevano bisogno, a qualsiasi gruppo etnico appartenessero. Facevo loro domande sul loro stato di salute, ma spesso non era quello ciò di cui volevano veramente parlare. Per loro, era più importante raccontarmi che qualcuno li aveva salvati e che quel qualcuno spesso apparteneva a uno dei gruppi che erano stati identificati come loro nemici. Eppure li avevano aiutati comunque, talvolta perdendo la vita per farlo, perché considerati dei traditori. Perché mi raccontavano quelle storie? Io venivo da Belgrado e quei pazienti sapevano che avevo più possibilità di loro di salvarmi e che probabilmente non mi avrebbero mai più rivista: volevano lasciare una traccia tangibile del fatto che l’umanità vinceva contro la guerra nelle mani di qualcuno che avrebbe potuto raccontarlo al mondo. Quando compresi questo, capii quanto fosse importante il ruolo morale che mi era stato dato e che non potevo ignorare la fiducia che quelle persone riponevano in me. Misi in secondo piano la mia carriera di cardiologa per raccogliere le storie di coloro che avevano avuto il coraggio di dire no, di non voltarsi dall’altra parte, di salvare, di dire uccidete prima me. Bisognava tramandarle alle nuove generazioni, perché imparassero a prenderle come riferimento e a non tacere di fronte all’ingiustizia.

C’è qualche storia di coraggio in particolare che ci vuoi raccontare, che può esserci d’ispirazione?

Avrei migliaia di storie che vorrei raccontare. Una però più di tutte, anche se non c’è nel mio libro, perché ne sono venuta a conoscenza solo in seguito grazie a un signore che mi si avvicinò in un caffè. Lui, la moglie e i due figli gemelli di quattro anni si trovavano in un campo di concentramento, nell’area di una scuola elementare, luogo che in tempo di guerra purtroppo veniva spesso usato a questo scopo. Un giorno, in quaranta vennero scelti e disposti in linea di fronte alla scuola. I perpetratori iniziarono a spingere uno di loro e, in quel momento, l’uomo che mi raccontò la storia si accorse che si trattava del suo migliore amico. Gli aguzzini, dopo averlo spinto, gli chiesero di scegliere dieci persone tra quelle quaranta - in cui erano compresi anche i due gemelli e la moglie dell’amico -, e il modo in cui avrebbe voluto che venissero uccise. Egli cominciò a guardare negli occhi quelle quaranta persone e, voltandosi verso i perpetratori, gridò: “vergognatevi, sono innocenti, dovreste lasciarli andare subito”. Rivolgendosi poi alle quaranta persone disse: “mi dispiace non poter fare di più per voi, ma domani sarò morto”. L’uomo venne allontanato di qualche metro e assassinato sul posto, nonostante fosse della stessa etnia dei perpetratori. Sapeva che lo avrebbero ucciso ma accettò il suo destino piuttosto che tacere. Nessuna strada o piazza viene dedicata agli eroi anonimi come lui. Diventeremo una società normale quando i nostri luoghi porteranno i nomi dei salvatori dell’umanità.

Come possiamo evitare che in Europa riaccada qualcosa di simile?

Per evitarlo bisogna riconoscere in anticipo i segnali, avere la sensibilità di proteggere le persone che vengono prese di mira, che vengono perseguitate, difendere i diritti umani e non accettarne la violazione. Tutte le società europee dovrebbero iniziare a essere responsabili rispetto a quello che fa chi governa, perché è potere e dovere dei cittadini. I nostri insegnanti sono i Giusti e da loro possiamo imparare molto. 

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