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Khalida Popal (1987)

Calciatrice, nonostante le minacce, ha contribuito a salvare 135 persone in fuga dai talebani

Il suo goal più bello, che le è valso pure il riconoscimento del presidente americano Joe Biden, lo ha segnato il 18 novembre del 2021 quando all’aeroporto di Stansted Londra è atterrato un volo proveniente da Kabul con a bordo le calciatrici della nazionale femminile dell’Afghanistan e i loro parenti, 135 persone in tutto in fuga dal regime del terrore imposto dai talebani tornati al potere. Non è stato facile per Khalida Popal trovare i fondi e mettere in salvo le sue eredi sui campi di calcio dove adesso non si giocano più partite e i talebani organizzano esecuzioni di massa. 

Ma sin dal 15 agosto di quell’anno, quando l’ultimo militare americano ha lasciato il Paese dopo vent’anni, Khalida Popal ha capito che niente più sarebbe stato come prima. Alle giocatrici che non potevano più giocare ha consigliato di cancellarsi dai social, distruggere le attrezzature e le maglie e nascondersi. Poi ha iniziato a bussare a mille porte. Coinvolgendo prima Fifpro, il sindacato mondiale dei calciatori, e alla fine l’italiano Andrea Raddrizzani, il ceo del Leeds United che milita nella massima serie inglese, che non solo ha finanziato in parte il volo ma ha offerto le strutture della sua squadra per far continuare a giocare le calciatrici dopo aver ottenuto asilo in Gran Bretagna.

Il calcio come momento di emancipazione e liberazione femminile Khalida Popal lo ha sempre respirato. La prima a farle infilare le scarpette con i tacchetti è stata sua madre, un’insegnante di ginnastica di origine pashtun come i talebani, ma dalla mentalità assai aperta. Oggi, per dire, non solo lei non potrebbe più giocare a calcio in Afghanistan, ma sua madre, in quanto donna, non potrebbe nemmeno insegnare. Gli esordi agonistici di Khalida Popal non furono facili nemmeno con la caduta del mullah Mohammed Omar e del regime talebano il 18 novembre 2001. Malgrado il sostegno delle istituzioni successivamente guidate da Hamid Karzai, dell’esercito americano e dei caschi blu delle Nazioni Unite presenti sul territorio, le minacce anche di morte da parte della minoranza talebana non più al potere continuarono. Contro di lei e contro le altre calciatrici, tutte sue amiche e compagne di scuola. «Ci vedevano e ci dicevano che una donna che gioca è immorale, è un insulto allo sport». Dove non bastavano le parole c’erano le pietre che tiravano alla squadra mentre si allenava in campo.

Forte delle sue convinzioni, incurante delle minacce anche di morte, Khalida Popal nel 2007 ottenne dalla AFF Afghanistan Football Federation il mandato a costituire la prima nazionale di calcio femminile del Paese. Per giocare in sicurezza vengono ospitate dal campo della base Nato di Kabul e nella partita di esordio contro la squadra femminile delle Nazioni Unite vincono 5 a 0. Il sogno è quello di misurarsi non solo in partite amichevoli, per confermare il loro diritto a giocare, ma di partecipare anche ai grandi eventi internazionali, come una squadra nazionale di calcio qualsiasi. E fa niente se nel 2008 in Pakistan, ai campionati femminili del Sud Asia la squadra capitanata da Khalida Popal perde sonoramente 13 a 0 contro la nazionale femminile del Nepal. Gli occhi calcistici del mondo sono oramai rivolti a Kabul, dove questa ragazza poco più che ventenne insegue un pallone e i suoi sogni. Le minacce dei talebani si fanno sempre più insistenti. Se tutta la squadra è nel mirino lei lo è ancora di più, per essere il motore di questo movimento che non è più solo per il diritto a giocare a calcio anche per una donna.

Nel 2011 quando le minacce di morte mettono a rischio la sua incolumità e quella dei suoi familiari Khalida Popal decide di lasciare il Paese e di andare in esilio. Arrivata in India è costretta ad andarsene perché New Delhi non le riconosce lo status di rifugiata. Allora sbarca in Europa, prima in Norvegia poi in Danimarca dove per un anno vive in un campo profughi. Riesce nel frattempo a laurearsi in marketing e continua ad allenarsi come può. Un brutto incidente al ginocchio mette fine alla sua carriera agonistica ma non alla passione per il calcio e lo sport femminile. In Danimarca fonda l’associazione Girl Power, un’organizzazione che si occupa di promuovere lo sport tra le minoranze femminili, organizzando squadre di migranti, rifugiate e appartenenti alla comunità LGBTQ+. In breve tempo diventa un’icona dello sport femminile afghano. Insieme al marchio di abbigliamento sportivo danese Hummel progetta la prima maglia di calcio con hijab e la mette a disposizione della nazionale afghana. La UEFA le conferisce il premio #EqualGame per il suo impegno nella lotta agli stereotipi di genere e per l’empowerment delle donne attraverso lo sport. Nel 2016 coinvolge l’ex nazionale USA femminile Kelly Lindsey che fino al 2020 sarà la coach della nazionale femminile afghana.

Nel 2018, dall’esilio, sostiene le calciatrici afghane che denunciano tecnici e dirigenti per abusi sessuali. Ne seguono inchieste che ricevono attenzioni internazionali e che portano la FIFA a squalificare a vita il presidente federale afghano Keramuddin Karim.
La situazione precipita il 15 agosto 2021 quando il generale maggiore Chris Donahue è l’ultimo soldato americano a lasciare il Paese. Per le calciatrici afghane, in ballo non c’è più solo il diritto a giocare ma quello di vivere. Khalida Popal smuove il mondo, coinvolgendo anche le linee aeree australiane che mettono a disposizione un aereo per far espatriare le giocatrici con i loro parenti. Il suo esempio sensibilizza molti. Robert McCreay, ex capo di gabinetto Usa durante la presidenza George W. Bush, lancia la operazione Soccer Balls per aiutare le altre calciatrici, quelle delle giovanili, che non sono riuscite a fuggire e che con genitori e figli al seguito si spostano da un posto all’altro senza preavviso per sfuggire alle milizie occupanti. Grazie all’operazione Soccer Balls si mettono in salvo 80 persone, tra le quali 26 calciatrici tra i 14 e i 16 anni. Ma ancora non basta a Khalida Popal: «Ci sono altre calciatrici, pallavoliste e giovani orfane che aspettano. Prima che vengano obbligate a sposarsi bisogna trovare un Paese disposto a dare loro asilo. Io non ho il potere di mandare un aereo, non ho il potere di tornare lì e farle uscire. Il mio potere è la mia voce, e la mia voce è forte». 

Fabio Poletti, giornalista, NuoveRadici.world

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