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Narges Mohammadi (1972)

attivista iraniana e Premio Nobel per la Pace 2023, ha dedicato la vita alla battaglia per i diritti umani nel Paese

Narges Mohammadi – nata a Zanjan il 21 aprile 1972 - conosce solo un modo di vivere: lottando contro la teocrazia islamica dell’Iran per difendere i suoi e altrui diritti. E lo fa senza cautele. Come un funambolo che cammina su un filo teso senza una rete che ammortizzi l’impatto dopo la caduta. Una settimana prima di compiere 50 anni, ha “festeggiato” con un video-appello rivolto a tutti gli attivisti e difensori dei diritti umani. Registrato il 21 aprile del 2022, quando è dovuta tornare di nuovo in carcere per scontare l’ennesima condanna di 8 anni di detenzione per presunti crimini contro la sicurezza nazionale dell'Iran. Sebbene la prigionia, l’isolamento, le torture, la malattia abbiano segnato la sua esistenza, nel video appare forte. Inspiegabilmente non ancora piegata dalla brutalità del regime iraniano. Con una chioma indomita di capelli scuri e ricci, un’espressione grave ma apparentemente serena, nel video, mandato online dall’organizzazione umanitaria Front Line Defenders il 21 aprile, afferma: “Cari difensori dei diritti umani, sono molto felice di condividere questo videomessaggio con voi oggi, in occasione del mio cinquantesimo compleanno. Oggi, alle 17, mi dirigerò verso il carcere, come tante altre volte, ma sono piena di speranza e libera da qualsiasi preoccupazione o frustrazione”. 

Narges Mohammadi è stata arrestata 12 volte, condannata complessivamente a 30 anni di carcere, oltre alle tante frustate. Attivista sin dai tempi in cui studiava all’università e aveva fondato il gruppo degli “Studenti illuminati”, ricorda la sua ultima campagna, fatta dopo la liberazione per gravi condizioni di salute, contro la tortura bianca: “Prima del mio arresto nel novembre dello scorso anno, insieme ad altri 85 attivisti, abbiamo avviato una campagna chiamata White Torture contro l'uso dell'isolamento nelle carceri iraniane. Crediamo che questa pratica debba essere fermata perché rappresenta una grave violazione dei diritti umani. Quattro mesi fa sono stata tenuta per più di due mesi in isolamento nel reparto 209 della prigione di Evin”. 

Nel 2008, Narges Mohammadi è diventata vicepresidente del DHRC, Defenders of Human Rights Center (fondato dal premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi) che finché ha potuto ha difeso i prigionieri politici e di coscienza nei procedimenti giudiziari. Narges Mohammadi entra ed esce dalle prigioni dagli anni 90 ed è sempre stata in prima fila nella battaglia nelle piazze contro la legge che obbliga le donne a indossare lo hijab. Una battaglia, quella contro l’obbligo di indossare il velo, che ha scatenato anche l’ultima, clamorosa, ondata di proteste scoppiate dopo l’omicidio di Mahsa Amini, il 16 settembre del 2022. Guidata da una generazione disposta ad andare fino in fondo per porre fine alla dittatura della Repubblica Islamica. E uno slogan potente che viene scandito in tutte le piazze del mondo occidentale: Zan, Zendegi, Azadi – Donna, Vita, Libertà”. 

A guardare il video registrato pochi giorni prima di tornare dietro le sbarre, il 21 aprile del 2022, si fa fatica a sovrapporre l’immagine della sua espressione vitale con quella del suo corpo quasi immobile nel letto, due anni prima, quando è stata picchiata selvaggiamente dal direttore del carcere di Evin per una protesta organizzata contro la repressione delle manifestazioni del 2019. Una forza esasperata, la sua, che l’ha portata nel 2020, appena liberata, a fare due libri e un documentario sulla tortura bianca in cui ha raccontato la sofferenza vissuta nell’isolamento. Nel suo racconto sulla tortura bianca, basato su diverse interviste a attivisti e dissidenti, ha scritto: “L'isolamento significa essere rinchiusi in uno spazio molto piccolo. Quattro mura e una porticina di ferro tutti dello stesso colore, spesso bianco. Non c'è luce naturale all'interno della cella. Non c'è aria fresca. Non si sente alcun suono e non puoi parlare o avere relazioni con altri esseri umani. Non hai niente tranne tre coperte sottili e logore, una camicia e dei pantaloni. Gli interrogatori sono condotti con minacce, intimidazioni e pressioni. I detenuti sono sottoposti a false accuse e a pressioni psicologiche per costringerli a false confessioni. Non ci sono contatti con familiari, amici o avvocati. La solitudine e l'impotenza influenzano la mente umana giorno dopo giorno”. 

Narges Mohammadi ha dedicato la sua vita a combattere la teocrazia iraniana e le sue leggi che hanno imposto il velo come vessillo dell’oppressione. Ha cominciato a entrare ed uscire dal carcere dagli anni Novanta, quando aveva sostenuto la campagna elettorale del riformista Mohammad Khatami, eletto presidente nel 1997 e nel 2001 grazie al voto delle donne e dei giovani che allora si illusero di poter ottenere delle riforme e più diritti per le donne. Arrestata di nuovo nel 2010 insieme ad altri attivisti del Centro Defensor of human rights fondato dall’avvocato e premio Nobel Shirin Ebadi, nel 2011 viene condannata a 11 anni di carcere per aver cospirato contro la sicurezza nazionale. Nel 2012, dopo una paralisi muscolare, viene rilasciata per problemi di salute. Sposata con il giornalista Taghi Rahmani - un politico dissidente che è stato incarcerato per 14 anni prima di essere costretto ad andare in esilio in Francia dove vive con i loro figli gemelli - si è opposta per anni alle condanne a morte che non sono mai state fermate, neanche contro i minorenni, e ha denunciato gli ufficiali giudiziari che hanno autorizzato gli isolamenti, la tortura bianca, arrestato i manifestanti della precedente ondata di proteste, nel 2019. Mohammadi è stata imprigionata nella prigione di Evin nel maggio 2015, dove è stata detenuta fino a dicembre 2019, quando è stata trasferita nella prigione di Zanjan, a circa 300 km da Teheran, dopo aver organizzato proteste contro le condizioni carcerarie e l'uccisione di centinaia di manifestanti nel novembre 2019. In seguito al suo ultimo rilascio, nell’ottobre del 2020, Narges Mohammadi ha ricevuto minacce di morte dalle forze di sicurezza ed è stata arrestata più volte, anche per un giorno solo. Narges Mohammadi ha denunciato gli agenti dell’Intelligence che l’hanno sottoposta a torture e altri maltrattamenti, strappandole brutalmente i capelli, tabù e ossessione misogina della Repubblica Islamica dell’Iran. 

Difficile comprendere la sua forza quasi esasperata. Persino suo marito, durante una conversazione avvenuta l’11 marzo 2022 al Geneva International Film Festival and Forum on Human Rights sul documentario di Narges Mohammadi sulla tortura bianca, ha confidato: “Ogni tanto ho provato a dirle di calmarsi, ma è dalle sue carcerazioni che lei trova la linfa vitale per andare avanti”. Nonostante la sua malattia neurologica, gli spasmi muscolari, ogni volta che viene rimessa in libertà, ricomincia di nuovo a lottare per i diritti umani. In carcere conosce anche tanti detenuti comuni e prende sulle sue spalle il fardello di tutti quelli che ha incontrato per difendere i loro diritti contro la piovra giudiziaria della Repubblica Islamica. E ogni volta che sfida il regime, viene punita. “L’hanno accusata anche per aver partecipato a una protesta per le donne afghane” ha ricordato il marito, spiegando dove forse è nata la sua motivazione per diventare una delle dissidenti iraniane più temute dal regime: “Diversi familiari di Narges sono stati imprigionati o condannati a morte dopo l’insediamento della Repubblica Islamica”. Anche se è difficile capire dove nasca una forza così travolgente. 

Narges Mohammadi, che è stata rilasciata dopo una reclusione di cinque anni nell'ottobre 2020, soffre di un disturbo neurologico che può provocare convulsioni, paralisi parziale temporanea e un'embolia polmonare. Il suo libro sulla tortura bianca, scritto nella breve libertà ottenuta dopo un’operazione al cuore, inizia così: “Scrivo questa prefazione nelle ultime ore del mio permesso. Molto presto sarò costretta a tornare in prigione. Questa volta sono stata dichiarata colpevole a causa del libro che hai tra le mani: la tortura bianca”. Nell’ottobre del 2022 è stata condannata a 15 mesi di reclusione con l'accusa di "propaganda contro il sistema" per aver espresso il suo sostegno al diritto del popolo a manifestare. Detenuta con altre 300 donne nel carcere di Evin, scrive in continuazione lettere e appelli per gli arresti fatti dopo la rivolta scoppiata a seguito dell’omicidio di Mahsa Amini. Ed è riuscita a mandare una lettera al Nouvel Observateur attraverso il marito Taghi Rahmani per far sapere al mondo come la galera di Evin fosse diventata un campo di battaglia, la notte del 15 ottobre. 

A metà dicembre del 2022, sul suo profilo Instagram è apparso un post. “Il popolo iraniano ha pagato un prezzo altissimo per combattere la tirannia e il regime religioso. Stiamo assistendo a uno sforzo eroico per ottenere la democrazia e il rispetto dei diritti umani. E ora che le donne stanno sacrificando la propria vita per poter scegliere cosa indossare, è difficile parlare di libertà di espressione. Dopo anni di reclusione, io sono di nuovo in carcere, privata anche della possibilità di ascoltare la voce dei miei figli, ma ho il cuore pieno di passione e di speranza. Cerchiamo la vittoria e la sconfitta una volta per sempre della tirannia”. Sul suo profilo Instagram compaiono spesso messaggi su quanto accade nel carcere femminile di Evin, appelli per i condannati a morte o storie di donne arrestate per aver osato fare la guerra ad Allah e detenute senza un giusto processo. Una sorta di radio carcere che serve a misurare la temperatura della ribellione e della repressione del regime iraniano.

Il 6 ottobre 2023 Mohammadi ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace "per la sua lotta contro l'oppressione delle donne in Iran e per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti".

La foto in copertina è una gentile concessione di Taghi Rahmani



Giardini che onorano Narges Mohammadi

Narges Mohammadi è onorata nei Giardini di Marsiglia e Milano - Monte Stella.

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