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Recep Tayyip Gültekin, Mikail Özen, Osama Joda: tre giovani che hanno salvato delle vite a Vienna

di Simone Zoppellaro

Recep Gultekin (a destra) e Mikail Özen (a sinistra) sono stati invitati all'ambasciata turca di Vienna come ringraziamento per il loro aiuto

Recep Gultekin (a destra) e Mikail Özen (a sinistra) sono stati invitati all'ambasciata turca di Vienna come ringraziamento per il loro aiuto (ANADOLU AGENCY)

Si chiama Recep Tayyip, proprio come il presidente turco Erdogan, uno dei tre giovani che hanno salvato delle vite a Vienna, durante l’attentato avvenuto lunedì nei pressi della sinagoga di Seitenstettengasse. Recep Tayyip Gültekin (ferito con un colpo alla gamba durante l’attentato) insieme a Mikail Özen, anche lui di origine turca, e a Osama Joda, palestinese, hanno salvato, a rischio della propria vita, un’anziana signora e un ufficiale ferito traendoli al riparo dalla furia omicida dell’attentatore e soccorrendoli. Persone semplici – due lottatori sportivi e il manager di un McDonalds – che sono intervenute anche per salvare l’onore della loro nazione e religione (nazionalisti i due ragazzi turchi, secondo quanto riportano i media austriaci, mentre il palestinese ha raccontato di essere stato vittima di islamofobia in passato) dal veleno del terrorismo. “Noi musulmani di origine turca aborriamo ogni tipo di terrore”, ha dichiarato Özen in seguito all’attentato. “Siamo al fianco dell'Austria, siamo al fianco di Vienna, rispettiamo l'Austria”.

Oltre a loro, tre gli albanesi coinvolti: l’attentatore ucciso era un albanese di Macedonia, cresciuto e radicalizzatosi proprio negli ambienti dell’islam radicale a Vienna, come albanese era di Macedonia anche una delle vittime, oltre a un poliziotto ferito, un albanese del Kosovo. Tutti di religione musulmana. Un cortocircuito, insomma, che avviene nel seno di una Vienna (e di un’Europa) multiculturali, che ci racconta un’integrazione imperfetta e a rischio, certo, ma pur sempre reale e riuscita in moltissimi casi. Errate e non realistiche le letture in chiaroscuro di una situazione complessa, di una sfida – quella della convivenza, parallela a quella contro il terrorismo – che si può vincere o perdere.

Si tratta di un dato significativo, in un contesto come il nostro, segnato dalla violenza retorica con la quale Erdogan ha deciso di seminare odio anche in Europa, facendo perno – questa la sua intenzione – su immigrati come i nostri tre protagonisti e come il poliziotto ferito. Non sarà un caso che lo stesso Erdogan, desideroso di sfruttare l’immagine dei due ragazzi, si sia fatto filmare dalle TV turche mentre faceva una videochiamata con loro. Ora, se non si può certo attribuire ad Erdogan la responsabilità diretta di quanto avvenuto, è indubbio però che i suoi attacchi feroci alle vicine Francia e Germania, accusate di islamofobia e persecuzione dei musulmani in patria, abbia gettato benzina sul fuoco dell’estremismo.

Si tratta di una battaglia culturale fondamentale, come scrive Gabriele Nissim, contro un fondamentalismo islamico che, dopo Nizza e Vienna, torna a seminare il terrore nelle nostre strade. Una battaglia culturale in cui è importante non lasciare sole persone come i tre giovani intervenuti. Vivendo in Germania, so bene come gli ultimi anni di potere di Erdogan abbiano prodotto lacerazioni dolorose e profonde in tanti turchi tedeschi. Conflitti, a volte anche aggressioni, sono avvenute di recente non solo nei confronti dei curdi, degli armeni e dei gülenisti, ma anche della parte migliore di questa fetta importante del nostro paese. Pensiamo, ad esempio, a Cem Özdemir, forse il volto più noto dei Verdi tedeschi, fra i promotori della risoluzione sul Genocidio armeno al Bundestag, e acerrimo avversario di Erdogan, fra i primi a denunciare l’aggressione turco-azera del Karabakh.

Ma non c’è solo Özdemir: quella turca è una componente fondamentale della politica e dalla cultura tedesca, in prima linea (proprio perché ne conosce sulla propria pelle la violenza) contro gli abusi e la violenza di stato di Erdogan. Per limitarmi a un altro nome, ricordo Sevim Dagdelen, che ha scritto parole dure sull’aggressione in corso agli armeni. Sembrerà un paradosso, ma è a proprio grazie a politici, giornalisti e attivisti come loro, se la guerra in Karabakh e i crimini di Erdogan sono cosa assai più nota al pubblico tedesco che a quello italiano.

Guardando al nostro passato, Pietro Kuciukian ha scritto libri di fondamentale importanza (e destinati a durare) sui tanti Giusti turchi e musulmani che hanno salvato tante vite di armeni durante il Genocidio. Oggi come ieri, ed è importante non cadere nella trappola che Erdogan – politico tutt’altro che sprovveduto – sta cercando tendere all’Europa. È importante ricordare che gli uomini, tutti gli uomini, anche se manipolati da una propaganda feroce nutrita di nazionalismo e estremismo religioso, possono sempre resistere, proprio grazie alla loro umanità, e dimostrarsi capaci di andare in una direzione opposta a quella del male.

Sono convinto che non si debba fare nessuno sconto al governo criminale di Ankara, che in questi giorni sta contribuendo a una pulizia etnica contro gli armeni del Karabakh, che minaccia la Grecia e mira a minare le nostre società dall’interno, a scardinare l’integrazione e a promuovere la violenza. Ma non sono i turchi o i musulmani il nostro avversario di oggi. I responsabili di ogni crimine, ieri come oggi, hanno nome e cognome. E se Erdogan ha mano libera per fare quello che fa, è anche grazie alle tante complicità e silenzi che trova nella nostra politica, e in chi nutre, con massicce esportazioni di armi (l’Italia, in primis), la sua macchina bellica.

C’è un altro Recep Tayyip, che Erdogan in persona vuole tirare dalla sua parte. Ci sono tre ragazzi musulmani straordinari che scardinano, con il loro gesto pieno di coraggio, la spirale cieca dell’odio che Ankara vuole promuovere. E, come loro, tantissimi. Non lasciamoli soli: sarebbe un tragico errore.

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