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I Giusti nel genocidio ruandese

editoriale di Françoise Kankindi

In una tranquilla serata primaverile, mentre stavo cenando con la suocera di mia sorella con cui vivevo a Milano durante i miei studi universitari, mi ritrovai davanti agli occhi un fiume di cadaveri trasmesso dal telegiornale. Quei corpi appartenevano al mio popolo. Le famiglie di mia madre e di mio padre soccombevano sotto il machete ma nessuno attorno a me comprendeva il dramma che stavo vivendo. Sentivo dentro di me un urlo infinito ma, nell’indifferenza che copriva il genocidio dei tusti nel mio paese, tale urlo era di un silenzio inaudito.
Nell’aprile del 1994, come nel 1959 quando mio padre si salvò per miracolo dal primo massacro dei tutsi in Ruanda, il mondo rimase a guardare. Intervenne solo per mettere in salvo gli occidentali con i loro cani e gatti, lasciando sotto la furia genocidaria uomini, donne e bambini che avevano l’unica colpa di appartenere all’etnia tutsi. Il comandante della missione di pace dell’Onu in Ruanda, Romeo Dallaire, chiese il permesso di fermare la carneficina che avveniva sotto i propri occhi ma tale autorizzazione gli fu negata. I potenti del mondo si girarono dall’altra parte. Si rifiutarono di usare la parola “genocidio” pur di non assumersi le loro responsabilità per evitare un intervento altrimenti obbligatorio così come sancito dalla Convezione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio approvata dall'Onu nel 1948.
Dopo una tragedia così grande è difficile ritrovare la fiducia nel prossimo, ma è grazie a coloro che durante il genocidio non esitarono a rispondere alla loro coscienza, ai loro valori profondi soccorrendo il prossimo a rischio della propria vita, che si ritrova un senso nell’essere umano. Persone appunto come Zura Karuhimbi, Pierantonio Costa e Yolande Mukagasana che a nostro avviso meritano un premio nobel per la pace. Cosa ha mosso Zura Karuhimbi a sfidare gli interahamwe, le milizie genocidarie, nascondendo sotto il loro naso centinaia di tutsi? Cosa ha spinto Pierantonio Costa ad intraprendere numerosi viaggi per portare in salvo migliaia di tutsi pagando di propria tasca i genocidari per non essere perquisito? Cosa tiene oggi in piedi Yolande Mukagasana, la cui famiglia fu massacrata, e come può non farsi travolgere dall’odio ma dalla voglia di testimoniare e trasmettere messaggi di pace e giustizia?
Forse la risposta a tutto ciò sta nella bontà “ insensata” e senso di responsabilità dei Giusti dai quali possiamo apprendere il coraggio di opporsi al male, di tendere una mano al prossimo e non girare la testa dall’altra parte quando attorno a noi si scatena il lato più malvagio degli esseri umani.

Françoise Kakindi, Presidente dell'Associazione Bene-Rwanda

Analisi di

24 gennaio 2011

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