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Dervis Korkut (1888 - 1969)

il bibliotecario che salvò una ragazza ebrea e l’Haggadah di Sarajevo

Una mattina di gennaio del 1942 il generale nazista Johann Hans Fortner, comandante della 718° Divisione di fanteria della Wehrmacht, si presentò al Museo nazionale di Sarajevo. Voleva requisire il più grande tesoro custodito nelle sue stanze: un prezioso manoscritto illustrato risalente al XIV secolo, noto come “l’Haggadah di Sarajevo”. Quel volume leggendario, trasportato seicento anni prima nell’Impero ottomano dagli ebrei sefarditi espulsi dalla Spagna ai tempi dell’Inquisizione, sarebbe diventato parte del bottino di guerra dei nazisti se non fosse stato salvato da Dervis Korkut, il coraggioso bibliotecario musulmano del museo. Fu lui, quel giorno, a spiegare al generale che l’antico libro era già stato consegnato in precedenza ad altri ufficiali nazisti. Ma non era vero. Un paio di giorni prima, venuto a sapere della visita dell’alto ufficiale nazista, Korkut si era fatto dare le chiavi della cassaforte del seminterrato per rimuovere il prezioso manoscritto. Se l’era infilato nel cappotto e poi l’aveva portato di nascosto in un remoto villaggio di montagna per metterlo al sicuro in una piccola moschea, grazie alla complicità di un imam locale. Dervis Korkut aveva all’epoca 54 anni, era un uomo erudito che parlava correntemente cinque lingue e apparteneva a una nota famiglia di intellettuali (suo fratello Besim era il più importante traduttore bosniaco del Corano). Ma era soprattutto un uomo coraggioso che non esitò a rischiare la vita mentendo al generale Fortner per trarre in salvo l’Haggadah. Voleva impedire in tutti i modi di farla cadere nelle mani dei nazisti perché conosceva il valore inestimabile di quel libro straordinario, che conteneva una collezione di storie bibliche, di preghiere e di salmi sulla Pesach, la festa che celebra la liberazione degli ebrei dall’Egitto.

Là dove si bruciano i libri si finisce prima o poi per bruciare anche le persone”, aveva scritto il grande poeta romantico tedesco Heirich Heine. Quella frase risuonava da tempo nella mente di Dervis Korkut, il quale non aveva aspettato l’inizio dell’invasione nazista della Jugoslavia, il 6 aprile 1941, per rendersi conto dei gravi pericoli che stavano correndo gli ebrei, e non solo loro, nel suo Paese. Nella parte occidentale della Jugoslavia era stato creato uno stato fantoccio nazista, lo Stato indipendente di Croazia, che aveva incorporato il territorio della Bosnia-Erzegovina. In poco meno di un anno erano stati sterminati centinaia di migliaia di serbi, di ebrei, di rom e di oppositori politici. Korkut, fervente musulmano, aveva preso le distanze fin da subito dalle leggi razziali che si accanivano in particolare contro la popolazione ebraica. Nel 1940 aveva firmato un articolo dal titolo “L’antisemitismo è estraneo ai musulmani della Bosnia-Erzegovina” e aveva contribuito a raccogliere una serie di documenti che confutavano le teorie antisemite. Era stato anche uno dei sottoscrittori della cosiddetta “Risoluzione di Sarajevo”, con la quale un gruppo di intellettuali jugoslavi condannò pubblicamente le atrocità commesse dai nazisti e dagli ustascia croati.

L’occasione per salvare una vita umana gli si presentò in un giorno di aprile del 1942, quando un conoscente gli chiese di soccorrere una giovane ragazza ebrea che era rimasta completamente sola, Donkica Papo. Tutti i suoi parenti erano stati deportati in un campo di concentramento e lei era tra i pochi superstiti del movimento giovanile Hashomer Hatzair, che era stato appena decimato dai nazisti. Anche stavolta, Korkut non ebbe alcuna esitazione e, d’accordo con sua moglie, accolse la ragazza in casa sua. Le procurarono abiti musulmani, le cambiarono nome in Amira e la dissero in giro che era una domestica di origine albanese. La ragazza rimase alcuni mesi con loro, finché non riuscirono a procurarle un documento d’identità falso e a farla uscire sana e salva dal Paese.

Dopo la guerra, l’Haggadah venne finalmente restituita al Museo nazionale di Sarajevo ma il destino aveva riservato una tragica beffa per chi aveva rischiato la vita per salvarla. Il nuovo governo comunista jugoslavo era intenzionato a mettere a tacere i dissidenti e Korkut, che aveva criticato gli atteggiamenti oppressivi nei confronti della religione e aveva denunciato gli orrori compiuti dai cetnici durante la guerra, divenne ben presto un nemico del regime. Nel 1946 venne arrestato con l’accusa di collaborazionismo con i nazisti e gli ustascia. Subì un processo-farsa insieme ad altri intellettuali bosniaci e si salvò dall’impiccagione solo grazie alle persone che testimoniarono il suo impegno per salvare l’Haggadah. Non riuscirono, però, a evitargli una condanna a otto anni di lavori forzati. Sua moglie chiese aiuto a Donkica, la ragazza ebrea che avevano salvato, ma la giovane si rifiutò di testimoniare temendo di finire anch’essa sotto processo. Korkut dovette trascorrere sei anni di carcere prima di poter tornare a lavorare nel museo di Sarajevo. Morì nel 1969, all’età di 81 anni, senza aver ottenuto alcun riconoscimento pubblico per quello che aveva fatto durante la guerra.

Ma per fortuna la sua storia non sarebbe rimasta per sempre nell’oblio. Donkica Papo visse a lungo con il rimorso di non aver voluto testimoniare a favore del suo salvatore e nel 1997, un anno prima di morire, decise finalmente di scrivere al Museo dello Yad Vashem per raccontare la storia del bibliotecario e di sua moglie che durante la guerra le avevano dato rifugio nella loro casa di Sarajevo. Nel 1999 Dervis e Servet Korkut furono infine proclamati “Giusti tra le nazioni” e di lì a poco, quasi come in un film, il tardivo riconoscimento del loro eroismo sarebbe riuscito a salvare altre vite umane. Proprio in quei mesi infuriava infatti un altro conflitto nei Balcani, in Kosovo, dove viveva Lamija Jaha, la figlia minore dei Korkut. La donna aveva dovuto lasciare la propria casa di Pristina in seguito agli attacchi dell’esercito serbo ed era scappata in Macedonia con il marito e i figli, insieme a migliaia di altri profughi. Nessuno sembrava in grado di poterli aiutare, finché non chiese aiuto alla comunità ebraica locale. Tra le poche cose che era riuscita a portare con sé c’era il certificato dello Yad Vashem che attestava quanto fatto dai suoi genitori durante la Seconda guerra mondiale. “Quel foglio ci aprì improvvisamente tutte le porte”, ha ricordato qualche anno fa il figlio di Lamija in un’intervista. “In appena quattro giorni organizzarono il nostro trasferimento dal campo profughi e ci portarono in Israele con tutti gli onori”. Dervis Korkut, morto trent’anni prima, aveva salvato anche loro.

Riccardo Michelucci, giornalista

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