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Diana Budisavljevic (1891 - 1978)

con la sua organizzazione, fondata a Zagabria, sottrasse circa dodicimila bambini ai campi di concentramento

Diana Budisavljević è stata protagonista di una delle più grandi operazioni umanitarie compiute in Europa durante la Seconda guerra mondiale ma per decenni il suo eroismo è rimasto sepolto nell’oblio, vittima di un corto circuito della storia innescato da veti e convenienze politiche. Secondo i calcoli più attendibili l’Aktion, l’organizzazione fondata a Zagabria da questa donna di origini austriache, sottrasse circa dodicimila bambini ai campi di concentramento mentre la popolazione serba dello stato indipendente croato veniva sottoposta allo sterminio di massa dal regime ustascia alleato con Hitler. Purtroppo non tutti riuscirono a salvarsi, poiché molti morirono non appena prelevati, durante il trasporto o nei luoghi in cui vennero accolti ma la sua preoccupazione quasi ossessiva per i bambini, soprattutto per i neonati, rappresentò la salvezza per migliaia di loro.

Nata il 15 gennaio del 1891 a Innsbruck, nel 1919 Diana Obexer si era trasferita a Zagabria con il marito Julije Budisavljevic, un celebre chirurgo di nazionalità serba dal quale acquisì il cognome. Tra il 1941 e il 1947 tenne un diario che è stato ritrovato molti anni dopo da sua nipote e ha consentito - dopo un’attenta ricerca sulle fonti documentarie - di ricostruire la straordinaria vicenda della sua “Azione”. Ma non è riuscito, finora, a rendere pienamente giustizia alla sua memoria.

In una delle prime pagine del suo diario (pubblicato in Croazia soltanto nel 2003), Diana racconta di aver incontrato una sarta di religione ebraica e di aver appreso da lei dell’esistenza del campo di concentramento allestito a Loborgrad, in un antico castello a poca distanza da Zagabria, dov’erano rinchiusi soprattutto bambini e donne serbe ed ebree, e dove le condizioni igieniche e sanitarie erano già al collasso. Diana andò a visitarlo di persona e iniziò a indagare, scoprendo che altri lager erano stati allestiti nelle vicinanze della capitale croata, come quello di Stara Gradiška, sul quale annotò: “Stanze prive di ogni arredamento. Per terra solo una fila di vasi da notte. Alcuni sdraiati, altri seduti, bambini piccolissimi terribilmente magri. Ognuno porta scritto in volto che sta morendo”.

Quanto aveva visto scosse la sua coscienza e la spinse a creare un comitato clandestino per l’organizzazione degli aiuti, con il quale iniziò a raccogliere abiti, scarpe e materassi, a cucire cappotti, coperte, lenzuola, nascondendo tutto nel garage di casa. In poco tempo riuscì a mobilitare decine di donatori e a consegnare i primi pacchi di aiuti alla comunità ebraica. Ma fu soltanto l’inizio. Ben presto riuscì a ottenere dalle autorità croate il permesso di recarsi periodicamente nei campi per accertarsi di persona delle condizioni delle internate e dei loro figli. Facendo leva sulla sua nazionalità austriaca, sulle sue amicizie e sulla fama del marito – considerato uno dei migliori chirurghi del Paese -, Diana Budisavljević cominciò a fare pressione sulle autorità politiche e religiose, e all’inizio del 1942 ottenne dalla polizia il primo permesso scritto che le concedeva di raccogliere e inviare cibo e vestiti agli internati di fede ortodossa.

Quando le autorità croate, temendo che nei lager scoppiasse un’epidemia di tifo, decisero di istituire una serie di “orfanotrofi” per i piccoli profughi, l’“Azione” iniziò a occuparsi dei primi bambini rilasciati dai campi di Loborgrad e Gornja Rijeka che non avevano dove andare poiché le loro madri erano state trasferite ai lavori forzati in Germania. Budisavljević convinse il governo di Zagabria a regolamentare il trasferimento dei bambini presso famiglie disposte ad accoglierli, poi organizzò i trasporti, a condizione che dopo la guerra fossero fatti tornare alle loro famiglie. Fu una vera e propria corsa contro il tempo per cercare di salvarli dalla fame, dalle malattie e dalle camere a gas. Per rendere possibile il ricongiungimento, nell’aprile del 1942 i membri dell’Aktion crearono un dettagliato archivio in cui furono registrate le generalità, le foto dei bambini e tutta la documentazione necessaria a tenere traccia dei loro genitori. Ogni piccolo riceveva una medaglietta da tenere appesa al collo, sulla quale era scritto il suo nome. La lista indicava il nome del bimbo, quello dei genitori e il luogo di provenienza della famiglia. Alla fine della guerra l’elenco conteneva circa dodicimila nomi di minori evacuati dai campi di concentramento di Stara Gradiska, Mlaka, Jasenovac, Gornja Rijeka e Jablanac. E avrebbe consentito a tante madri di ritrovare i propri figli.

La consapevolezza dei gravissimi rischi che correva non impedì a Diana Budisavljević di entrare più volte nel famigerato campo di sterminio di Jasenovac affrontando a viso aperto il suo comandante, Vjekoslav Luburic, considerato uno dei più crudeli criminali di guerra ustascia. In un altro passaggio significativo del diario, racconta la sua visita al più famigerato lager dei Balcani per prelevare i bambini: “le scene dolorose che ho visto sono indescrivibili. Quanto coraggio in quelle donne. Alcuni bambini piccoli non si volevano separare dalle loro madri, e allora loro disperate dicevano ai loro adorati: ‘Ti piacerà, non avere paura, presto verrò a prenderti’. E poi la solita domanda fatta a bassa voce – se avrebbero mai rivisto i loro figli”. In appena due giorni Budisavljević riuscì a farne uscire dal campo oltre un migliaio. L’affidamento alle famiglie adottive sarebbe stato soltanto una sistemazione temporanea, poiché l’obiettivo era quello di restituire i bambini ai loro parenti subito dopo la guerra.

Ma pochi giorni dopo la liberazione di Zagabria, avvenuta l’8 maggio 1945, la “lista di Diana” fu sequestrata dal nuovo governo comunista jugoslavo che – pur riuscendo a individuare molti genitori dei bambini salvati – oscurò la grandiosa operazione umanitaria messa in atto dalla sua “Aktion” per raccontarla come un trionfo delle forze partigiane di Zagabria. Diana Budisavljević non vide mai riconosciuto il suo ruolo perché dopo la guerra non volle avere niente a che fare con il regime di Tito, che non tollerava la sua neutralità politica. Sarebbe rimasta in disparte per il resto della sua vita, continuando a vivere a Zagabria con il marito fino al 1972, quando fece ritorno a Innsbruck, sua città natale, dove morì nel 1978, all’età di 87 anni. Finora il suo eroismo è stato riconosciuto soltanto dalla Serbia, il cui presidente della Repubblica, Boris Tadic, le ha conferito nel 2012 la medaglia d’oro alla memoria. Ad oggi nessun riconoscimento ufficiale è invece arrivato dalla Croazia, che si è limitata per ora a intitolarle un parco cittadino a Zagabria.

Riccardo Michelucci, giornalista

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