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Famiglia Angeli e Matti

quattro cittadini di Firenzuola che salvarono la famiglia Smulevich dai nazisti

Quattro nuovi nomi compaiono, dagli inizi di novembre 2021, sul muro del Memoriale della Shoah di Gerusalemme: Armando e Clementina Matti, Pietro e Dina Angeli. Due famiglie imparentate di Firenzuola che hanno salvato la famiglia ebraica degli Smulevich durante gli anni 1943-1944, nascondendoli disinteressatamente e rischiando la vita. Come ha ricordato Ruben Lopes Pegna (figlio di Ester Smulevich):Sono state persone davvero straordinarie quelle che hanno salvato la mamma e la sua famiglia con coraggio ed altruismo, quello che è mancato in quegli anni terribili a tanta gente. Non c’è stata indifferenza da parte loro. Indifferenza è una parola che ripete di continuo la senatrice Liliana Segre, deportata ad Auschwitz quando aveva 13 anni, quando parla della Shoah. ‘Spesso – ha dichiarato la senatrice Segre (intervista al Corriere della Sera il 30 agosto 2020) – mi chiedono come sia potuta succedere. E io rispondo sempre con questa parola: indifferenza. Se pensi che una cosa non ti riguardi e ti volti dall’altra parte, è lì che inizia l’orrore’ ”.

A beneficiare del coraggio e della generosità delle famiglie Mutti e Angeli furono Sigmund (Sigismondo) e Dora Smulevich con i figli Alessandro ed Ester e il nipote Leon (figlio di Aron sterminato col resto della famiglia famiglia nel Campo di Chełmno, in Polonia).

Ricorda il nipote Ermanno Smulevich, che suo nonno Sigmund (Sigismondo) Smulevich, era nato sul finire dell’Ottocento, a Dzalioszyn, un paesino agricolo di 4.000 abitanti (metà della popolazione erano ebrei), del sud della Polonia, allora sotto il dominio dell’impero russo. Erano 5 fratelli: una famiglia di modeste condizioni e fin da giovanissimo Sigismondo imparò il mestiere di sarto. Nel 1914 fu arruolato nell’esercito russo e un anno dopo fu fatto prigioniero dagli ungheresi e imprigionato vicino a Fiume (oggi Rieka), in Istria, che allora dipendeva dalla corona ungherese. Liberato nel 1918, rimase a Fiume dove iniziò a esercitare il mestiere di sarto. Lì conobbe Dora, un’ebrea ungherese: si sposarono e nacquero Alessandro ed Ester. Nel 1924 Fiume fu annessa all’Italia e tutta la famiglia ottenne la cittadinanza italiana. L’attività sartoriale prosperò, Smulevich aprì una sartoria sul corso principale, acquistò una casa e, nel 1933, chiamò da Dzalioszyn a coadiuvarlo il nipote Leon. Conducevano una vita medio-borghese, moderatamente benestante, mantenendo sempre un basso profilo politico.

Quando nel 1938 vennero emanate le leggi razziali, fu loro revocata la cittadinanza italiana e con l’entrata in guerra dell’Italia, nel 1940, Sigismondo e il nipote Leon, in quanto “ebrei apolidi”, furono arrestati e inviati nel campo di internamento a Campagna (in provincia di Salerno), costretti a vivere in condizioni malsane. Da Campagna, Sigismondo riuscì a farsi trasferire prima a Firenze, poi a Prato, come “internato libero”, cioè con obbligo di firma quotidiano, senza potersi mai allontanare dalla città.
Quando il 25 luglio del 1943 cadde il fascismo, con la guerra che continuava, Sigismondo intuì che di lì a poco la situazione per gli ebrei sarebbe peggiorata. Non potendosi allontanare da Prato perché internato, nell’agosto mandò la moglie ad affittare una stanza a Firenzuola a casa della famiglia Matti. La stanza gliela avevano trovata i coniugi Barta, due ebrei fiumani internati a Firenzuola, con i quali era rimasto in contatto.
Subito dopo l’8 settembre e l’inizio dell’occupazione dell’Italia da parte dei tedeschi, tutta la famiglia Smulevich fuggì a Firenzuola, trovando rifugio dapprima a casa della famiglia Matti e, pochi mesi dopo, quando la situazione a Firenzuola si fece più pericolosa, a casa degli Angeli a Ponte Roncone. Quando il regime fascista promulgò un’ordinanza di polizia, che prevedeva l’arresto degli ebrei e il loro internamento in campi di concentramento, gli Smulevich appresero la notizia dal giornale, mentre si trovavano in casa dei Matti. Terrorizzati e piangenti si abbracciarono l’un altro non sapendo più cosa fare.

Decisero di dividersi perché troppo numerosi tutti e cinque insieme: Sigmund, Dora ed Ester si rifugiarono nella casetta di Ponte Roncone dagli Angeli, raggiunti pochi giorni dopo da Leon, che aveva trovato ospitalità temporanea a casa di Umberto e Gelsumina Righini a Firenzuola. Alessandro restò invece a casa dei Matti trasferendosi, per sua maggiore sicurezza, nella stanza dei loro figli.

Trascorsero quasi un anno di clandestinità, tra mille pericoli scaturiti anche dalla vicinanza con la Linea Gotica, fino all’agognata Liberazione. Il giovane Alessandro Smulevich tenne un diario di quel periodo (che è stata una testimonianza chiave ai fini del riconoscimento come “Giusti” alle famiglie Mutti e Angeli). Rinchiuso in una stanza dove consumava anche i pasti, trascorreva le giornate riportando le sue riflessioni sul diario e leggendo i libri che gli procurava Renato Matti. Non usciva mai dalla stanza per paura di incontrare vicini o conoscenti venuti in visita dai Matti. Il primo dicembre 1943 scrisse: “Grazie a Dio le persone che ci circondano in casa ed i loro parenti sono misericordiosi e cercano di confortarci e provvederanno alla nostra sistemazione per l’avvenire onde cercare di salvarci la vita, per la qual cosa saremo loro riconoscenti per sempre”. L’unico giorno che trascorse fuori dalla sua stanza fu quel Natale del 1943 quando fu invitato in cucina a condividere il pranzo con tutta la famiglia Matti. Poi alla fine anche lui dovette scappare a Ponte Roncone.
Il figlio di Ester Smulevich, Ruben Lopes Pegna, ha raccontato quella storia dal punto di vista di sua madre: “La mia mamma, era una ragazzina di 16 anni quando, con la sua famiglia, andò a Firenzuola, nell’autunno del 1943 con tanta paura addosso. (...) Sin da quando ero piccolo i miei genitori mi hanno raccontato, con estrema delicatezza, le esperienze da loro vissute durante la Seconda guerra mondiale. Poi, quando avevo sei anni e Don Renato Matti venne a trovare i miei nonni, la mamma mi spiegò che Don Renato insieme alla sua famiglia aveva salvato lei e tutta la famiglia Smulevich. Non entrò nei particolari, però. Di quel periodo mi ha colpito un episodio che ho trovato nel libro di Giuseppe Celata E poi la salvezza”, storie italiane di ebrei strappati alla Shoah: 1943-1945 (Medicea, Firenze 2014): «A quel seminarista – dice la mamma nel libro – parlando di Don Renato che aveva preso i voti nell’estate del 1944 Dora, volle regalare una “Chanukkiyah” d’argento, perché ne facesse un calice per la sua “Prima messa”: lui accettò, era commosso». E aggiungo io: il calice d’argento era un oggetto che, a quei tempi, non tutti si potevano permettere. La nonna, nel contempo, si privò di un oggetto, la Chanukkiyah, al quale noi ebrei siamo particolarmente legati. Il 20 settembre del 1944, il giorno in cui gli alleati arrivarono a Ponte Roncone, era Zom Ghedalià, ovvero il digiuno di Ghedalià in ricordo di Ghedalià Ben Achiqam, governatore di Israele assassinato due mesi dopo la distruzione del primo Tempio di Gerusalemme. Così mi illustrò nei particolari la storia sua e della sua famiglia nei mesi bui trascorsi in montagna. Insisteva la mamma soprattutto sul coraggio e l’umanità delle famiglie Matti e Angeli che avevano messo a rischio le loro vite per salvare degli sconosciuti quali erano loro. Rimasi commosso, senza parole”.

Ester Smulevich ebbe sempre in mente i suoi salvatori. Nel gennaio del 2005 consegnò una lettera a Leo Temin, allora consigliere della Comunità ebraica di Firenze, in occasione della sua partecipazione a Firenzuola a una manifestazione per la Giornata della Memoria, nella quale ringraziava la famiglia Matti per avere loro salvata la vita in tempo di guerra.

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