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Il fratello minore

di Andrea Barzini

Ettore Barzini

Ettore Barzini

La storia di Ettore Barzini è raccontata nel libro di Andrea Barzini, in uscita il 21 gennaio 2021, "Il fratello minore" (Solferino Editore)

Nella mia famiglia c’era un mistero, mio zio Ettore, Ettore Barzini, fratello di mio padre, morto a Mauthausen. Nessuno ce ne aveva mai parlato, non c’era una foto, una traccia, non sapevamo nemmeno perché fosse stato deportato. Così, da ragazzo, ci avevo fantasticato. Chi era questo zio? Lo immaginavo molto diverso da mio padre, che era un uomo concreto, volitivo, pratico. L’unico dettaglio che il genitore si era lasciato sfuggire del fratello minore era un aggettivo: “sognatore”. Da ragazzi i sognatori piacciono, così lo zio mi rimase dentro. Poi, e non so perché, un paio di anni fa, ho ricominciato a pensarci. Sono andato all’Archivio di Stato a Roma, dove erano conservate le memorie della mia famiglia, (sia mio nonno, che mio padre sono stati giornalisti famosi), e ho trovato le sue lettere. Erano poche, ironiche, svagate, dirette quasi tutte alla madre o alla sorella. E siamo diventati subito amici. Aveva una voce che riconoscevo, un modo di prendere le cose che capivo. Era un secondogenito come me, non aveva raccolto il peso del mondo sulle spalle come era successo a mio padre e a mio fratello. Cadetti. Quelli che nel Medioevo facevano i cavalieri di ventura ed erano difensori di cause perse e protettori degli indifesi. 

Dalle lettere e da poche altre tracce, ho ricostruito la sua vita. Aveva studiato agronomia a Cornell, in USA, quando il nonno dirigeva un giornale a New York, (siamo all’inizio degli anni 30), poi aveva lavorato in Giamaica e in Somalia, coltivando banane. In Somalia si era messo in urto coi fascisti che lo avevano licenziato. Tornato a Milano aveva aiutato la famiglia in crisi, la nonna era morta di cancro nel 1941 lasciando figli e marito completamente disorientati. Ettore si prese cura di loro. Intanto la guerra si faceva sempre più drammatica. Grecia, Albania, Russia, Africa Orientale, grazie al militarismo del duce, gli italiani, quando non finivano in qualche campo di prigionia, stavano morendo in mezzo mondo. Ora Ettore lavorava come capo-cantiere e aveva aiutato negli sgomberi delle case bombardate, salvando tante vite e prendendosi una medaglia al valore civile. Da lì a entrare nella Resistenza per combattere chi aveva buttato gli Italiani nella tragedia, il passo fu semplice. Come i suoi compagni, Ettore voleva collaborare per creare un mondo giusto. In famiglia lo chiamavano don Chisciotte, il solito don Chisciotte. Ha aiutato come poteva, piccole azioni di un resistente minore, il trasporto di una radio clandestina, la consegna di un pacco di carte d’identità false, l’accompagnamento in Svizzera, attraverso le montagne, di una famiglia ebrea con tre bambini, che scappava dall’orrore di Milano per non finire deportata. Quando le SS andarono a cercarlo, lui non c’era, ma mio nonno è andato al posto suo. Lo hanno tenuto in ostaggio per un pomeriggio. Ettore, per tirare fuori il padre, che in realtà non rischiava nulla, si presentò. Non voleva che qualcuno pagasse un prezzo, anche il più piccolo, per colpa sua. Lo portarono a San Vittore, venne torturato e deportato a Fossoli, il campo in Emilia dove transitarono in tanti poi spediti a morire al nord, infine a Mauthausen, e Melk, dove è morto nel marzo 45, due mesi prima della fine della guerra.

Prima di scrivere la sua storia, ho avuto dei dubbi: “Ma cosa sto facendo? Tirar fuori una storia seppellita, occuparmi dei fatti segreti dei miei parenti morti, roba da necrofila, e poi, con che diritto giudicare la loro cancellazione di Ettore?” Man mano che scrivevo, gli scrupoli sono scomparsi. La memoria era una cosa bella, e non un atto mortifero, stavo riportando in vita una persona che se lo meritava. La mia era una restituzione. In quanto al mistero per cui era stato cancellato, aveva a che fare con un sentimento che tanti sopravvissuti hanno provato in quegli anni, un segreto senso di colpa per non essere morti anche loro.

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