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Karl Jaspers (1883 - 1969)

filosofo tedesco che non si è piegato al regime nazista e ha posto le basi per l'elaborazione delle responsabilità sulla Shoah

Correva l’anno 1946, quando la Germania – appena uscita sconfitta dalla guerra – si presentava come un cumulo di macerie, morali e fisiche. Tante le città rase al suolo nei loro centri urbani – da Dresda a Amburgo, da Stoccarda a Würzburg – mentre la fame colpiva una parte significativa della popolazione tedesca, che ancora piangeva gli oltre cinque milioni di soldati morti nel conflitto, oltre al quasi mezzo milione di civili caduti nei bombardamenti degli Alleati.

Alleati che avevano riempito le strade della Germania di manifesti che recavano immagini dei Lager appena liberati, sui quali avevano scritto: “Queste atrocità: colpa vostra!”, mentre i filmati di tali orrori erano trasmesse di continuo nei cinema, per trovare massima diffusione. “Davon haben wir schon viel gehört” (‘Su questo, abbiamo sentito abbastanza”): questa la reazione del tedesco medio dell’epoca – come riporta la storica Caroline Shapers – nei confronti della Shoah. Vero era l’esatto contrario. Nessuno, con la scusa della ricostruzione e delle sofferenze patite anche dai tedeschi, sembrava interessato a riflettere sulla propria responsabilità, individuale e di nazione, rispetto all’Olocausto. D’altra parte, all’epoca, amnesie e reticenze nei confronti dello sterminio degli ebrei erano ancora diffuse anche fra gli Alleati, che dovevano ancora assumere coscienza – almeno pubblicamente – della portata di quel genocidio.

Ebbene, in quello stesso 1946, uno dei più grandi filosofi tedeschi del Novecento – che pur, fra i pochissimi, non si era mai compromesso con il nazismo – a meno di un anno dalla conclusione della guerra, dava alle stampe un libro destinato a fare la storia: ‘La questione della colpa’, che raccoglieva una serie di conferenze che Karl Jaspers aveva tenuto all’Università’ di Heidelberg fra il 1945 e il ’46. Una delle riflessioni più straordinarie e complete mai affrontate sulla pagina più oscura della storia europea, quella dell’Olocausto; ma anche un invito a una responsabilità condivisa che aprisse, come poi è avvenuto, a una nuova coscienza sulla quale rifondare, culturalmente e politicamente, una nuova Germania.

Eppure, come dicevano, pochissimi o nessuno – tanto fra i suoi colleghi filosofi che fra gli accademici – potevano vantare, come lui, il fatto di essere rimasti in Germania, senza piegarsi alle direttive ideologiche di Hitler. Salvato dall’arrivo degli americani a Heidelberg quando ormai il suo destino sembrava segnato, Jaspers aveva perso, a causa del nazismo – il cui pericolo, in un primo momento, aveva sottovalutato, pensandolo solo transitorio – tanto la facoltà di insegnare che di pubblicare libri e articoli. Nel 1937, poiché sua moglie era di origine ebraica e lui non era disposto a separarsi da lei, fu infatti costretto al pensionamento anticipato, cui seguì la messa al bando delle sue opere.

Nel 1942, grazie all’aiuto di amici influenti, gli era stato concesso il permesso di andare in Svizzera e di proseguire lì il suo lavoro; ma i nazisti imposero una condizione: la moglie, Gertrud Mayer, doveva restare in Germania. Jaspers non si piegò e decise di rimanere con lei, di proteggerla e farla nascondere, nonostante i pericoli. Entrambi avevano deciso, in caso di arresto, di suicidarsi con delle pillole al cianuro già pronte. Nel 1945 gli era stato detto da una fonte attendibile che la sua deportazione era prevista per il 14 aprile. Il 30 marzo, però, Heidelberg – come detto – fu liberata dagli americani.

Dopo la fine della guerra, spirito anticonformista e combattivo, Jaspers – invece si sedersi sugli allori, cosa assai facile con una carriera alle spalle e con un passato come il suo – si batté duramente per una completa denazificazione del corpo docente e per una nuova cultura accademica, scontrandosi con la triste realtà che pochi volevano ascoltarlo, anche perché il numero di professori che non si erano compromessi con i nazisti era troppo esiguo; pochi, inoltre, erano disposti a investire e scommettere su una nuova cultura in quegli anni di povertà e privazioni, che miravano al miracolo economico a venire. Solo assai lentamente, una nuova cultura universitaria potrà affermarsi di nuovo, in Germania. Nella primavera del 1948, accettò quindi una cattedra di filosofia a Basilea, anche a causa delle opposizioni e critiche che incontrava. La sua partenza per la Svizzera, di cui divenne in seguito cittadino, fu considerata da molti tedeschi come un tradimento.

Fiero avversario di ogni nazionalismo, si batté per un mondo che superasse gli steccati delle patrie e delle sovranità particolari, guardano a un universalismo politico che avrebbe permesso a tutti gli uomini di vivere e comunicare in libertà e pace. Negli anni della Guerra Fredda, denunciò il pericolo della corsa agli armamenti e della proliferazione nucleare. Durante gli ultimi anni della sua vita, combattivo come sempre, denunciò la deriva della democrazia in Germania che andava trasformandosi, nella sua lettura, sempre più in un’oligarchia nazionale di partiti. E, ancora una volta, il suo coraggio fu accolto con un fastidio e dure critiche dai politici della Germania occidentale di tutti gli orientamenti.

Convinto individualista, Jaspers si oppose sempre a ogni indebita semplificazione nazionalistica. Qui un suo passaggio tratto da ‘La questione della colpa’:

Non si può fare di un popolo un solo individuo. Un popolo non può perire eroicamente, né diventare criminale, né agire moralmente o immoralmente. Sono cose che possono essere compiute solamente da persone singole che ne fanno parte. Un popolo nel suo insieme non può essere né colpevole né innocente, e ciò né in senso criminale né in senso politico (nel campo politico rispondono solo i cittadini di uno stato) né in senso morale. La valutazione categoriale dal punto di vista del popolo è sempre un'ingiustizia; essa presuppone una falsa ipostatizzazione e porta come conseguenza la degradazione dell'essere umano come persona singola.

In un paradosso solo apparente, eppure, nessuno aveva interrogato con tanta forza e acume i tedeschi sulle loro responsabilità nei confronti della Shoah. Il suo pensiero, che meriterebbe di essere studiato anche nelle scuole italiane, oltre che in quelle tedesche, presenta una disamina articolata di quali siano le colpe di cui si erano macchiati i tedeschi (e, diremmo noi, tanti altri in Europa) nei confronti degli ebrei.

Jaspers sviluppa così il concetto di colpa in quattro categorie: giuridica, politica, morale e metafisica. Se le prime tre, non ascrivibili ad esempio che a chi – come lui – si era opposto al nazionalsocialismo, sono prettamente individuali (la terza, quella morale, riconducibile solo alla propria coscienza), la quarta, quella metafisica, risulta invece universale e interroga chiunque sia sopravvissuto agli orrori del nazismo: una colpa incancellabile per tutti i tedeschi, quella di aver abdicato a una “vita degna” – quella che, nel caso dell’uomo, “vuole che si viva insieme o non si viva affatto”.

Forte della fede in una “solidarietà incondizionata che ciascuno conosce per averla almeno una volta vissuta nell’ambito di una particolare unione nella vita”, Jaspers guarda al futuro dell’Europa e dell’umanità, aprendo a un dialogo corale (significativo il plurale che ricorre nel testo) che porti ciascuno di noi a una nuova cultura che, affrontando e indagando il passato senza sconti e espedienti, lo superi per sempre.

Se la Germania di oggi è il paese che aperto che tutti conosciamo, questo lo si deve senza dubbio anche a Karl Jaspers, questo grande precursore: al suo pensiero e al suo coraggio straordinari.

Simone Zoppellaro, giornalista

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