La biografia è raccontata a Gariwo in prima persona dalla figlia di Leonora Josephus Jitta - Leeuwenberg, Sophie Josephus Jitta.
Mia madre, Leonora Josephus Jitta- Leeuwenberg, non fu mai una madre nel senso classico del termine olandese, vale a dire una mamma tutta casa e famiglia:
lavorava, anche se con qualche intervallo dovuto alle nascite dei figli. Nel 1929 si era laureata in chimica, dopodiché aveva trovato lavoro come insegnante, in un liceo cattolico di Alkmaar, una cittadina a nord di Amsterdam.
Mio padre era ebreo, un ebreo non osservante, e la mia mamma era cattolica. I due si conobbero nel locale maneggio. Per potersi sposare mio padre dovette diventare cattolico; seguì un corso presso un’abbazia, diede degli esami e fu promosso cattolico. Nel 1937 si sposarono e trovarono casa a Heiloo, un paesino vicino ad Alkmaar. Ben presto nacquero tre figli maschi.
L’azione di soccorso clandestina
Nel maggio del 1940 i tedeschi occuparono l’Olanda e nel 1942 emanarono le prime vere e proprie leggi razziali. Mio padre, laureato in legge, banchiere e giudice supplente, era già stato licenziato nel 1941, perché per le forze occupanti era ebreo. Il suo essere cattolico non contava. Poco più tardi, alcuni amici gli consigliarono di divorziare: anche se le persecuzioni razziali non erano ancora cominciate, la situazione degli ebrei non poteva che peggiorare. Poi, nonostante il fatto che il matrimonio era misto e gli ebrei nelle unioni miste per il momento venivano lasciati in pace, in futuro sarebbe toccato sicuramente anche a loro. Inoltre, per mia madre, con tre figli in tenera età che secondo la terminologia nazista di allora erano dei mezzi ebrei e che come tali prima o poi sarebbero stati soggetti a delle misure restrittive, sarebbe senz'altro stato meglio non avere più un marito ebreo.
I miei, nel mese di marzo del 1942, effettivamente divorziarono. Mio padre andò ad abitare ad Amsterdam, presso un’anziana vedova ebrea affittacamere, ma continuava a vedersi con mia madre e i figlioletti. A un certo momento però la situazione cambiò. Ebbero inizio i primi rastrellamenti e il mio papà avrebbe corso un grosso rischio uscendo di casa. Ma egli usciva ugualmente e questo dispiaceva talmente tanto alla vedova che fece sapere alla mia mamma che il comportamento di mio padre era troppo pericoloso, per tutti. E così papà fece ritorno a Heiloo. Per più di due anni sarebbe rimasto nascosto nella propria camera da letto.
Tra il 1942 e il 1944 la mia mamma ospitava oltre all'ex marito altri 10 ebrei, di solito per alcuni mesi. Dovevano stare chiusi nelle loro camere, al primo piano della villa, anche perché i tre piccoli dovevano assolutamente restare all'oscuro di quanto succedeva in casa. All'inizio del 1944 arrivò una chiamata, da una studentessa di Amsterdam che s’impegnava a trovare dei nascondigli per ebrei. Una giovane signora aveva immediato bisogno di lasciare Amsterdam. Mia madre acconsentì e la signora subito dopo arrivò a Heiloo.
Nell'autunno del 1944 i tedeschi imposero a mia madre di evacuare la casa, convinti che tra poco sarebbero sbarcati gli alleati - Heiloo è vicino al mare - e la villa faceva loro gola. Si presentò però un piccolo problema: come si faceva ad evacuare anche quelli che ufficialmente non c'erano? Per mio padre e l’unica signora ebrea rimasta - gli altri avevano trovato alloggio altrove - si trovò una soluzione: la nuova casa era a Haarlem, una cittadina nei pressi di Amsterdam, e per arrivarci la signora avrebbe preso il treno, mimetizzata da semplice domestica, con tanto di secchio e scopa e con gli zoccoli ai piedi. Per il trasporto del mio papà la mamma ebbe un lampo: vestiamolo da traslocatore, con una tuta blu e un berretto e facciamolo andare a Haarlem con il camion dei traslochi. Il camionista intuì però che quella figura sconosciuta non era uno del mestiere e capì anche che uomo era. Qualche tempo dopo, nell'inverno del 1944-45 egli bussò alla porta della nuova casa di mia madre e pretese da lei del cibo. Se non gliel'avesse dato l'avrebbe denunciata ai tedeschi per aver in casa un ebreo (che intanto in quella piccola casa di nascosti ce ne fossero ben quattro - la resistenza di Haarlem vi aveva sistemato altri due ebrei - il camionista non lo sapeva). La mamma non si spaventò e non gli diede nulla: gli indicò la porta.
Dopo la liberazione
Il 5 maggio del 1945 l'Olanda fu liberata e mia madre potè tornare a casa, a Heiloo. Anche il mio papà non dovette più nascondersi e 'tornò a galla', come si suol dire in olandese. Nell’autunno si risposarono (l'uno con l'altra) e io nacqui a febbraio, dal secondo matrimonio.
Se quando io ero piccola a casa mia si parlava poco delle angherie della guerra, con il passare degli anni e più precisamente dopo la morte del mio papà (1984) mia madre prese a parlarne volentieri. Raccontava quanto fosse successo durante la guerra con grande disinvoltura, minimizzando il suo ruolo nel salvataggio di vite ebraiche. 'Ho semplicemente fatto il mio dovere', diceva.
Nel 1998 il medico le diagnosticò un cancro senza speranza di guarigione. La mia mamma affrontò la propria immanentissima fine con lo stoicismo di sempre: telefonò ad alcune persone per prendere commiato da loro (e non viceversa), preparò la cerimonia della sua cremazione e aspettò che giungesse la sua ora. Tenne in mano la regia fino alla fine.
Il riconoscimento postumo
Nel 2018 però, venti anni dopo il suo decesso, per motivi in questa sede irrilevanti, decisi di avviare le pratiche per un riconoscimento ufficiale da parte di Yad Vashem della mia mamma. Dopo uno scambio di e-mail con la sede di Yad Vashem Gerusalemme e dopo aver inviato l’abbondante documentazione riuscii a farla riconoscere come una ‘Giusta’: Leonora Josephus Jitta salvò la vita a cinque ebrei.
Sophie Josephus Jitta