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Marie-Claude Vogel Vaillant-Couturier (1912 - 1996)

Fotoreporter, nel '33 denunciò i campi di lavoro nazisti. Internata a Ravensbrück, dopo la Liberazione restò nel campo per non abbandonare i compagni moribondi

Era il 3 maggio 1933, proprio 90 anni fa, quando il settimanale francese Vu pubblicava le immagini, mai viste né sospettate prima, dei “campi di lavoro per dissidenti politici” che il nazismo aveva inaugurato, nel marzo di quello stesso anno, vicino alle cittadine di Dachau (in Baviera) e di Orianenburg (Brandeburgo). Erano le prime foto di recinzioni di filo spinato, pigiami a righe, sguardi smarriti e volti incavati di oppositori che erano lì per essere “rieducati”. E che presto sarebbero stati raggiunti da ebrei, zingari, disabili, omosessuali e chiunque altro fosse giudicato, dal regime di Adolf Hitler, indegno di vivere nella società tedesca.

Oltre a essere una denuncia, il reportage era uno scoop mondiale, ma non era firmato. Non dall’autrice, perlomeno. A realizzarlo di nascosto durante un viaggio in Germania, nelle settimane precedenti, era stata una ragazza di vent’anni ancora sconosciuta: Marie-Claude Vogel, figlia di Lucien, editore sia di Vu, giovane rivista di attualità, sia di Vogue Francia e di altre testate dal piglio più glamour. Sua madre era Cosette de Brunhoff, sorella di Jean, il creatore di Babar, l’elefantino immaginario che, dagli anni 30 in poi, intrattiene generazioni di bambini.

Marie-Claude era nata a Parigi nel 1912 ed era cresciuta in un ambiente colto, aveva assimilato idee liberali ed esplorato orizzonti internazionali. Suo nonno materno, Maurice de Brunhoff, pubblicava i sontuosi programmi dei balletti russi. Già, perché il cuore di quel ramo della famiglia pompava aristocratico sangue russo e quello di Vogel batteva per Mosca, anche dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Delle due figlie di Lucien Vogel, Marie Claude era quella meno sensibile al richiamo della moda e degli stilisti, ma aveva accettato di posare come modella per Vogue e per gli altri rotocalchi del gruppo paterno, poco prima di scoprire che la sua vocazione era muoversi dall’altra parte dell’obiettivo, con una Rolleiflex al collo. O nascosta sotto la sciarpa, come quando era riuscita ad avvicinarsi clandestinamente ai “campi”, travestita da giovinetta bavarese, con insospettabili trecce bionde e ingenui occhi azzurri.

Maïco, come Marie-Claude era soprannominata in famiglia, aveva imparato il tedesco a Berlino, mentre frequentava i corsi di Belle Arti. Aveva fatto da interprete a suo padre, nei viaggi di lavoro durante i quali avevano indagato sull’inquietante ascesa al potere di Hitler. Aveva assimilato i segreti del mestiere, scelto il campo politico dove esercitarlo e sposato nel 1937 uno dei più celebri esponenti comunisti francesi dell’epoca, Paul Vaillant-Couturier, capo redattore al giornale L’Humanité, morto improvvisamente undici giorni dopo le nozze.

Il 24 gennaio 1943, a dieci anni dal suo scoop, Maïco faceva parte del convoglio di 230 prigioniere politiche e partecipanti alla Resistenza diretto ad Auschwitz-Birkenau. I nazisti ignoravano di inviare così nel cuore dell’inferno una dei futuri testimoni chiave al processo di Norimberga che sarebbe stato celebrato tre anni più tardi contro i loro gerarchi. Marie-Claude era tra le 49 superstiti di quel convoglio, grazie anche alla conoscenza della lingua tedesca e a un trattamento appena più umano nei suoi confronti da parte dei carnefici, che la utilizzavano per lavori d’ufficio o di traduzione.

Il 30 aprile 1945, alla liberazione del campo di concentramento di Ravensbrück dove era stata trasferita nell’agosto dell’anno precedente, aveva deciso di restare altre sette settimane per non abbandonare i compagni moribondi o non ancora in condizioni di poter viaggiare: c’era bisogno di lei come interprete e infermiera accanto ai medici della Croce Rossa, per dare conforto a chi stava agonizzando e per raccogliere le prove documentali dei crimini commessi dalle SS.

Il 28 gennaio 1946, la deposizione di Marie-Claude Vaillant-Couturier al “processo de secolo”, circostanziata e implacabile, fece il giro del mondo: non dimenticò un dettaglio delle atrocità cui aveva assistito, elencò nomi e responsabilità, date e numeri. Attraverso la sua bocca, come spiegò in seguito, sentiva di dare voce alle migliaia e migliaia di vittime silenziate per sempre.

Non le sarebbe comunque bastato: eletta deputata, riuscì anni dopo a far votare all’Assemblea Nazionale l’imprescrittibilità dei crimini di guerra. Fino alla morte, nel 1996, mantenne inalterata la sua devozione al comunismo e all’Unione Sovietica.

Ricorda la sua biografa Yseult Williams (“On l’appelait Maïco”, Grasset 2021) che Marie-Claude Vaillant-Couturier era in lista nel 2015 per l’ingresso al Panthéon con due delle sue compagne di Ravensbrück, Geneviève de Gaulle-Anthonioz e Germaine Tillion. Ma, dopo lunga esitazione, l’Eliseo ha preferito escluderla.

Elisabetta Rosaspina, giornalista, già inviata del Corriere della Sera

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