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Otros Infiernos. La testimonianza di Primo Levi come supporto alla rielaborazione della dittatura argentina da parte dei sopravvissuti

di Liliana Ruth Feierstein

„Ich habe diesen Namen, der mir so lieb ist, an den Eingangspfosten meines Buches angeschlagen, und es ist mir dadurch wohnlicher und gesicherter geworden. Auch Bücher müssen ihre Mesusse haben“

"Ho posto questo nome" (1) che tanto mi è caro sullo stipite del mio libro il quale mi è diventato in tal modo più abitabile e più rassicurante. Anche i libri devono avere la loro mezuzà".

(Heinrich Heine Lettera a Eduard Gans, Maggio 1826)

Le mezuzot, piccoli contenitori che si pongono sugli stipiti delle porte delle case e dei luoghi ebraici, li segnano ricordando che lì si rispetta la legge ebraica. Dentro la capsula è contenuto un passo della Torà (Deuteronomio 6,4-9 e 11,13-21) che include lo Shemà Israel; la preghiera dell’ascolto e del comandamento del ricordo (Zachor).

L’importanza delle testimonianze di Levi è inestimabile non solo per la sua ricchezza, per poter comprendere la Shoah, ma anche come fonte per riflettere e rielaborare altre esperienze traumatiche di estrema violenza. In questa relazione intendo dimostrare (molto brevemente) alcuni esempi di intertestualità e il ruolo della scrittura di Levi nelle testimonianze relative ai centros de detención y tortura dell’ultima dittatura in Argentina (1976-1983).

La presenza dell’opera di Levi nelle testimonianze dei sopravvissuti argentini (e dei figli di desaparecidos) svolge, secondo la mia interpretazione, lo stesso ruolo di mezuzà che il nome di Rachel Varnhagen (in altra misura) svolgeva per Heine: e cioè che rende il libro “più abitabile e più rassicurante“.

Si tratta di iscriversi ad una tradizione, e non è casuale che l’opera di Levi sia pervenuta in Argentina per mezzo della comunità ebraica e in particolare attraverso i sopravvissuti ebrei e le loro famiglie. Tornerò tra un attimo su questo tema. Nel 1984, quando la dittatura militare argentina era appena terminata, David Roskies pubblicò Against the Apocalypse: Responses to Catastrophe in Modern Jewish Culture. Nell’introduzione egli cita la leggenda secondo cui gli ebrei sefarditi avrebbero portato con sé le chiavi delle case che erano costretti ad abbandonare nell’espulsione dalla Spagna del 1492, e avrebbero continuato a conservarle di generazione in generazione. Sebbene questa sia solo una metafora, Roskies aggiunge che ci sono chiavi verso il passato che aprono altre dimensioni nella storia stessa (individuale e comunitaria). È importante integrare la catastrofe in una narrazione che sia già familiare. Questa è una antica strategia ebraica di narrazione attraverso la quale, per esempio, i sopravvissuti alla Shoah davano a se stessi il nome di Sherit ha’ pleitah (il resto che sopravvisse), una definizione già presente nel libro di Esra, riferita ai pochi che sopravvissero all’esilio in Babilonia. La stessa logica coinvolge il nome jiddish dell’Olocausto: khorban che di fatto si riferisce alla distruzione del Tempio.

Molti degli autori e sopravvissuti argentini che ricorrono a questa strategia, anche a motivo della natura antisemita della dittatura militare, sono ebrei. In questo senso, autori e sopravvissuti offrono alla società argentina una via di rielaborazione che esiste nella memoria culturale (a volte diretta, poiché alcuni sono figli di sopravvissuti o conoscono le storie attraverso racconti originali trasmessi nelle loro comunità, etc..). Questa memoria culturale fu posta in essere direttamente nei campi. Ho ascoltato una sopravvissuta sostenere alcuni mesi fa nella sua dichiarazione: “I nostri compagni ebrei furono molto importanti per noi. Perché, arrivati ai campi noi non sapevamo che si trattava di un campo di concentramento. Ma loro sì, sapevano per le loro storie familiari. E ci aiutarono loro a capire dove fossimo.”

Nel corso degli anni la Shoah continua ad assumere differenti funzioni, nelle testimonianze e nella letteratura, che analizzano la dittatura: allusione, metafora, analogia.

Nel 1988, la casa editrice della comunità ebraica di Buenos Aires (il cui nome è “Milà”, termine che include una duplice allusione: significa “parola” in ebraico ma anche ricorda la via da cui partì l’ insurrezione del ghetto di Varsavia, Ulica Mila 18) pubblicò in traduzione spagnolaSi esto es un hombre (Se questo è un uomo), nella collana “Raíces de cultura judía” (Radici di cultura ebraica), con una tiratura di 25.000 copie poste in vendita in tutte le edicole del Paese. A partire da questo momento, non solo si videro persone sugli autobus che leggevano questa testimonianza, ma l’opera di Levi diventò il testo base per riflettere su quel che era accaduto nei campi di concentramento in Argentina.

Alcuni anni più tardi fu fondata l’associazione degli ex detenuti e desaparecidos in Argentina, i quali, in un laboratorio straordinario, eccezionale, costituirono dei gruppi di riflessione per pensare a quanto era accaduto e per ricostruire la storia dei campi, poiché nel caso argentino non si dispone praticamente di alcuna documentazione dei massacri. Nella struttura di tali incontri, alcuni partecipanti ebrei proposero di invitare al dialogo i sopravvissuti della Shoah. Furono incontri molto emotivi; ne ricordo uno nel quale Charles Papiernik, sopravvissuto ad Auschwitz, dopo la relazione di Mario Villani, sopravvissuto alla ESMA (2) concluse ‘Es el mismo dolor’ (È lo stesso dolore) e si fusero in un abbraccio. Si proposero di leggere alcune testimonianze della Shoah che avrebbero potuto (salvando la distanza) aiutare a riflettere e a rielaborare questo orrore. Primo Levi è così diventato una lettura obbligatoria. In questo ambito si organizzarono nel 1996 corsi universitari aperti al pubblico in cui i sopravvissuti argentini discussero la loro esperienza con la società: le letture base erano Levi e Semprùn. Con il trascorrere del tempo, le letture si ampliarono al resto delle opere di testimonianza di Primo Levi in una dinamica che si convertì in una sorta di eco: comprendere, a partire da questa esperienza estrema, qualcosa della propria esperienza. Questa eco andò rafforzandosi (e sembrò funzionare nelle due direzioni) quando i sopravvissuti argentini incontrarono ne: I sommersi e i salvati due riferimenti ai desaparecidos argentini (tra le catastrofi accadute - pur distinguendole dalla Shoah -) e in, un paragrafo, l’affermazione che Levi non era disposto a perdonare questi crimini:

“Inoltre, fino al momento in cui scrivo, e nonostante l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, la vergogna dei Gulag, l’inutile e sanguinosa campagna del Vietnam, l'autogenocidio cambogiano, gli scomparsi in Argentina, e le molte guerre atroci e stupide a cui abbiamo in seguito assistito, il sistema concentrazionario nazista rimane tuttavia un unicum, sia come mole sia come qualità.” (Prefazione)

“Non ho tendenza a perdonare, non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori in Algeria, in Vietnam, in Unione Sovietica, in Cile, in Argentina, in Cambogia, in Sud-Africa, perché non conosco atti umani che possano cancellare una colpa (…)” (L’ intellettuale ad Auschwitz)

In tal modo i testi dei sopravvissuti argentini divennero autentici palinsesti con vari livelli di intertestualità. L’immagine dell’Inferno, la “citazione” di Levi che cita Dante si trova direttamente nel titolo di un lavoro alquanto insolito: Ese infierno: Conversaciones de cinco mujeres sobrevivientes de la ESMA. (Questo inferno: Conversazioni di cinque donne sopravvissute alla ESMA) Questo testo possiede caratteristiche speciali tra cui il fatto di essere la testimonianza collettiva di cinque donne in forma dialogata. In qualche modo, tale “citazione” percorre l’intero testo e, quel che trovo suggestivo, prevalentemente in forma di epigrafi. Sebbene il tema della Shoah sia presente in altri riferimenti è nella funzione di epigrafe che acquista maggior forza. Nel primo capitolo di Ese infierno, riferito al campo, si legge una epigrafe di Primo Levi:

Moltissime stono state le vie da noi escogitate e attuate per non morire: tanti quanti sono i caratteri umani. Tutte comportano una lotta estenuante di ciascuno contro tutti, e molte una somma non piccola di aberrazioni e di compromessi. Il sopravvivere senza aver rinunziato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della sorta dei martiri e dei santi.

Sotto la stessa epigrafe appaiono, nelle conversazioni delle sopravvissute, tutti i concetti che Levi affronta nei suoi scritti; la vergogna, la nudità, la colpa di essere sopravvissuti, la violenza senza senso, la ferita della memoria.

L’epigrafe, come sottolinea Genette, ha una funzione centrale nel testo, e tra le altre cose suggerisce al lettore una certa direzione di lettura, rimandandolo, nella intertestualità, ad altri autori e testi. Ma non si tratta di una intertestualità qualsiasi; l’ epigrafe ha un posto privilegiato al quale l’autore, in qualche modo, subordina se stesso; il suo testo è anche una reazione a, o un commento su, la citazione (che in molti casi funziona come citazione autorevole). È anche, in alcuni casi un omaggio ai morti con analoga funzione di epitaffio.

E nel nostro caso assume, anche se in altro modo, ha la funzione della mezuzà, che reca incisa la lettera shin, per ricordare il nome divino Shadai, un acrónimo di “Guardiano delle porte di Israel”. In altro modo, l’uso di questi testi pre-esistenti integra la catastrofe in una narrazione che è già familiare come rilevato da Roskies. Le narrazioni precedenti ci consentono di adattare la testimonianza stessa e di comprendere cosa accadde nella cornice del possibile (“È già accaduto prima”). È interessante che il primo libro di Levi cominci, come sapete, non con un’epigrafe ma con qualcosa di simile: alcuni versi autografi. In essi Levi fa riferimento alla tradizione, allo Shemà (la più importante preghiera nell’ebraismo) che al tempo stesso egli riformula sulla base della sua esperienza ad Auschwitz. Shema: lo stesso comandamento di ascoltare e ricordare custodito dalle mezuzot. Ciascun libro di Levi possiede un proprio testo-soglia, la propria mezuzà. In “La Treguala mezuzà è una alquanto singolare; una poesia che scrisse il giorno dopo aver scritto Shema, che riprendeva il problema del sogno e del risveglio sempre nel campo (Wstawac!): un incubo al quale molti sopravvissuti argentini fanno riferimento.

La stessa agonia che ritorna è presente nello stipite della porta de “I sommersi e i salvati”, vigilata dal vecchio marinaio di Coleridge (La ballata del vecchio marinaio, The Rime of the Ancient Mariner, vv.582-85)

“Since then, at an uncertain hour,

That agony returns:

And till my ghastly tale is old

This heart within me burns”

Ne Il sistema periodico la mezuzà sta letteralmente nella lingua assassinata, nello jiddish (Ibergekumene tsores iz gut tsu dertseylin). (È bello raccontare i guai passati).

Nella esperienza argentina, la lingua assassinata, cui non si lasciò possibilità di vita, è cosa diversa che negli echi della testimonianza di Levi; sta per esempio nell’attività artistica dei figli dei desaparecidos. I membri della comunità dei “Colectivo de Hijos” (figli dei desaparecidos e asesinados dal terrorismo di Stato) organizzano riunioni in cui mescolano politica e arte; essi usano la parola incomprensibile di Hurbinek, quel bambino nato ad Auschwitz al quale Levi dedica uno dei paragrafi più toccanti de “La Tregua”, come una specie di testimonianza estrema. “Mass-klo matisklo” ritorna, come l’impronunciabile lingua di quei figli della morte, nei loro interventi artistici pubblici in Argentina.

La presenza di Levi va pertanto cercata nelle citazioni pubbliche del suo lavoro (con analogie -e differenze- con il caso argentino) ma anche in quelle riferite, attraverso l’uso della metafora letteraria,che egli aveva trovato per descrivere (in qualche modo) l'orrore. Nel cortometraggio Palabras (Parole) della sopravvissuta Ana Mohamed, parlando della pena che augura ai suoi carnefici, esprime indirettamente quasi le stesse parole che si leggono nella strofa conclusiva della poesia di Levi, 

Per Adolf Eichmann:

“O figlio della morte, non ti auguriamo la morte.
Possa tu vivere a lungo quanto nessuno mai visse:
Possa tu vivere insonne cinque milioni di notti,
E visitarti ogni notte la doglia di ognuno che vide
Rinserrarsi la porta che tolse la via del ritorno,
Intorno a sé farsi buio, l'aria gremirsi di morte.”

Parimenti accadde, finita la dittatura, nel prologo di Nunca Más (Mai più) dello scrittore argentino Ernesto Sábato, scritto già nel 1984, in cui vennero presentate le testimonianze dei pochi sopravvissuti ai campi argentini. L’Inferno di Dante viene evocato in una forma che rimanda chiaramente a Primo Levi ed Auschwitz per tutti i lettori che conoscono le fonti “De ahí se partía hacia el antro en cuya puerta podía haber inscriptas las mismas palabras que Dante leyó en los portales del infierno: «Abandonad toda esperanza, los que entrais». (Da qui si partiva per l’antro su cui si sarebbero potute leggere le stesse parole che Dante lesse sulla porta dell’Inferno “Lasciate ogne speranza voi ch’intrate”.

Anche in “Ese infierno” sono citate, nel terzo capitolo la tristemente celebre frase del cancello di Auschwitz (“Arbeit macht frei”) insieme ad una citazione della sociologa sopravvissuta Pilar Calveiro che ribadisce, affrontandola, l’idea di Levi della zona grigia.

El Campo es una infinita gama, no del gris, que supone combinación del blanco y negro, sino de distintos colores, siempre una gama en la que no aparecen tonos nítidos, puros, sino múltiples combinaciones.

(Il campo è una gamma infinita non del grigio che presuppone una combinazione di bianco e nero ma di colori distinti e pur sempre una gamma nella quale non appaiano tonalità nitide, pure, bensì in combinazioni molteplici.)

Anche dalla parte degli aguzzini a volte si esplica questa intertestualità (per esempio da parte dei militari argentini che recuperano il linguaggio del nazismo). Nel campo di detenzione e tortura “El Olimpo” di Buenos Aires c’era un cartello con su scritto “Bienvenido al Olimpo de los Dioses. Los centuriones”. (Benvenuti nell’Olimpo degli Dei. I Centurioni). Le iscrizioni sulla porta potevano svolgere altro ruolo: in questo caso non si tratta di mezuzot ma di uno strumento di tortura psicologica.

A fronte di queste inaudite e perverse “scritte” (come le chiama Levi) la minuta scrittura della mezuzá, nascosta nel piccolo astuccio, rappresenta una bella metafora di trasmissione della scrittura di testimonianza che ci obbliga, come scrive Levi, a:

“Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli...”

E giustamente questo ultimo verso (Deut. 4-9) (4) costituisce l’epígrafe con cui ha inizio il libro “Ese infierno”.

Noi ebrei baciamo le mezuzot nell’entrare in un luogo e i libri quando cadono a terra perchè amiano la Scrittura e in essa ci sentiamo sicuri e umani. Le testimonianze dei sopravvissuti argentini, custodite nella scrittura di Primo Levi (e dagli altri sopravvissuti alla Shoah) ci aiutano a preservare la nostra umanità. Al contrario di quanto afferma Agamben, la vera testimonianza (e il lascito) non è il silenzio della morte di quelli che non tornarono ma la valenza infinita di quelli che compresero il valore del raccontare e nella scrittura lo strumento per recuperare i morti dalla dimenticanza.

Traduzione in italiano a cura di Dorle W. Bascone e Giovanna G. Kuck

Note

(1) H.Heine fa riferimento al nome di Rachel Varnhagen.

(2) La Escuela de Mecánica de la Armada (prima Escuela Superior de Mecánica de la Armada da cui ESMA) conosciuta internazionalmente come ESMA, era la scuola per la formazione degli ufficiali della marina argentina di Buenos Aires, soprattutto per quanto riguardava la preparazione tecnica in ingegneria e navigazione. Passò tragicamente alla storia per essere, durante la dittatura autodenominatasi Processo di Riorganizzazione Nazionale (1976-1983), il più grande e attivo centro di detenzione illegale e tortura delle persone scomode al regime della giunta (capeggiata prima da Videla, e poi in successione da Viola, Galtieri e Bignone). Di qui sono passate più di 5.000 persone.

(3) “Ma guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore , per tutto il tempo della tua vita... Le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli" (Deuteronomio 4:9).

Liliana Ruth Feierstein, Humboldt Universität Berlino

Analisi di

14 aprile 2021

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