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Focherini: un Santo, un martire o un uomo normale?

editoriale di Gabriele Nissim

La copertina del libro

La copertina del libro

Può sembrare paradossale. Proprio nei giorni in cui il Papa ha  dichiarato che sarà beato Odoardo Focherini, l’esponente dell’azione cattolica, deceduto nel campo di concentramento di Hersbruck, viene pubblicato un libro importante Un giusto fra le nazioni, Odoardo Focherini dello storico Giorgio Vecchio che lo descrive non come “un eroe di altri tempi”, ma come un uomo normale, che senza particolari visioni politiche, ha il coraggio di impegnarsi  nel momento giusto per la salvezza di un centinaio di ebrei, destinati alla soluzione finale.


L’autore lo dichiara esplicitamente nel corso della presentazione all’Ambrosianeum di Milano. “Ho scavato come storico attorno alla sua figura, non tacendo sulla sua ingenuità e sulla sua adesione al fascismo, perché credo che sia molto educativo descrivere una persona, che ha pagato per la vita per il suo coraggio civile, con tutte le sue parzialità. In questo modo possiamo presentare ai giovani degli esempi morali, non cadendo nella retorica, ma mostrando che ogni essere imperfetto, ha comunque sempre la possibilità di operare una scelta e di essere artefice del destino nello spazio che gli compete.” 
È la lezione di Moshe Bejski, l’artefice del giardino dei Giusti di Gerusalemme, che non cercava gli eroi, ma amava valorizzare le azioni di persone normali, perché il bene era per lui alla portata di tutti. Chiedere troppo ad uomo significa snaturarlo e creare degli alibi a coloro che rimangono  passivi, ripeteva spesso il giudice israeliano.


E così scopriamo che Focherini amava intensamente la vita e non aveva nulla del martire votato al sacrificio. Era un’alpinista, adorava le sue montagne trentine, come la moglie con i suoi sette bambini. Era dedito all’impegno cattolico, ma non per questo aveva rinunciato a un lavoro redditizio, come quello di assicuratore. E anche quando fu arrestato e rinchiuso in carcere di San Giovanni in Monte a Bologna, nelle lettere clandestine che spediva ai suoi amici, fece di tutto per trovare una via di uscita. Come Aldo Moro, come puntualizza bene Giorgio Vecchio, non voleva morire nel carcere dei carnefici, ma si diede da fare per convincere le autorità religiose a intervenire in suo soccorso. Cercò fino all’ultimo di indicare una strategia che lo avrebbe potuto riportare a casa. Non era certo un tipo alla Janus Korczak che decise volontariamente di accompagnare i suoi alunni nel campo di Auschwitz per portare loro conforto nel momento più tragico.
Il suo cattolicesimo, apparentemente, non aveva nulla di originale per i tempi in cui viveva. Conduceva, in qualità di presidente della diocesi di Carpi, delle vere e proprie crociate contro il ballo che considerava deleterio per i giovani, attaccava poi l’immoralità che si diffondeva attraverso il cinema e invitava i cattolici a disertare le sale. L’11 febbraio del 1937, nel corso dell’assemblea della diocesi, attaccò i comunisti, assieme “alle forze compatte dell’interesse e dell’immoralità al servizio del protestantesimo e dell’ebraismo.” Ecco dove, secondo lui, si annidava il male.


Come dirigente cattolico non vedeva di buon occhio la concezione totalitaria del partito fascista che minava l’autonomia delle organizzazioni religiose, ma non per questo ebbe delle particolari esitazioni, quando si iscrisse al partito fascista. Anzi in varie occasioni si lasciò andare ad una convinta esaltazione del regime. “Per merito di un grande capo, scriveva, il popolo italiano è di nuovo uno di schiatta ( allusione alle leggi razziali), di religione, di lingua, di costumi e di ideali.” Scrisse persino le parole di un inno in lode al fascio e all’Italia imperiale.
Quando il vescovo gli impose di lasciare l’incarico di dirigente laico della diocesi, per gli accordi intercorsi tra Pio XII ed il fascismo, si  può intuire che gli dispiaceva molto, ma non avendo nulla dell’eroe, accettò di buon grado la nuova situazione e trasferì il suo impegno cattolico nell’Avvenire d’Italia, di cui diventò amministratore e qualche volta commentatore.
Nella sua vita, come nel suo rapporto con il regime, era sempre stato molto pragmatico. Mai avrebbe fatto il passo più lungo della gamba. Eppure Focherini, che mai si era indignato per le leggi razziali, all’inizio del 1943 prima ancora dell’8 settembre, quando per caso venne a conoscenza della sorte di due ebrei polacchi fuggiti in Italia, non perse tempo e sollecitato dal suo amico Giacomo Lampronti, ebreo convertito, non perse tempo, li nascose in un posto sicuro e fornì loro dei salvacondotti, con i quali poterono trovare la salvezza. Aveva capito dove portava l’antisemitismo nazista.


Da allora è un continuo crescendo: nel corso dell’occupazione nazista dell’Italia Focherini costruì una rete di soccorso che permise ad un centinaio di ebrei la possibilità di rifugiarsi in Svizzera. L’esponente cattolico raccoglieva le richieste di aiuto nella sede della Cattolica a Modena o nella sede dell’Avvenire d’Italia a Ferrara e poi si prodigava per la stesura di documenti falsi, mentre il suo amico Don Dante Sala accompagnava personalmente gli ebrei alla frontiera, fino a quando venne arrestato alla stazione di Como il 4 dicembre del 1943. 
Ciò che era interessante, come racconta Giorgio Vecchio, era la miriade di relazioni attraverso cui realizzava questa azione di soccorso. Odoardo aveva coinvolto impiegati dell’anagrafe che gli procuravano timbri falsi, prelati ed amici fidati che lo finanziavano e sostenevano nel lavoro, taxisti e contrabbandieri che portavano gli ebrei aldilà del confine. Come avrebbe potuto commentare Primo Levi, aveva risvegliato la zona grigia, spingendo alla solidarietà persone che altrimenti avrebbero assistito passivamente alla persecuzione degli ebrei.
Nella sua audacia c’era una dose di ingenuità. Non si rendeva conto che prodigandosi per la salvezza degli ebrei con azioni organizzate avrebbe rischiato conseguenze molto pesanti. Se fosse stato più accorto avrebbe cercato di mantenere in pubblico un basso profilo e avrebbe evitato di polemizzare nel novembre del 1943 con Enrico Cacciari, il direttore della Gazzetta dell’Emilia, per un articolo su Raffaello, dove si ricordava scherzosamente  che non aveva avuto “il cattivo gusto di prendere moglie”, consentendogli così di adoperare tutto il suo tempo per la produzione artistica. Quando scrisse al giornale, accusandolo di denigrare la famiglia e di fare un’apologia dell’amore libero, trovò una durissima risposta da parte di Cacciari che lo definiva come un ex fascista, colpevole di rimanere in silenzio di fronte ai preti che proteggevano nelle loro curie “tutti i transfughi che ogni tanto scendono a valle per assassinare.” Era un pesante avvertimento, a cui non presto ascoltò quando si recò personalmente nell’ospedale di Carpi, l’11 marzo del 1944, per portare dei documenti contraffatti a Enrico Donati, un ebreo che dopo la sua degenza sarebbe stato nuovamente trasferito campo di Fossoli, per essere poi spedito in Germania. Fu in quell’occasione che venne arrestato.
Ma è proprio nella sua ingenuità che possiamo scoprire il segreto della sua azione a favore degli ebrei, che gli varrà il titolo di giusto consegnato alla sua famiglia da Yad Vashem, il 5 agosto 1969.
Di fronte al rischio estremo che correvano i perseguitati, compreso il suo amico convertito Giacomo Lampronti, Focherini considerava del tutto normale intervenire per la loro salvezza. Doveva essere un’azione normale per un uomo normale e così con grande candore non pensava alle possibili conseguenze. Non si sentiva assolutamente un uomo votato al sacrificio, perché per lui era naturale fare qualche cosa per gli ebrei, come avrebbe dovuto esserlo per tutta la chiesa, per i vescovi, per il Papa, per ogni cittadino italiano. E dunque se si era normali che pericolo c’era?


Lo spiegò molto bene al suo amico Don Sala. Era normale agire in quel modo perché il Cristo nel Vangelo aveva insegnato che “qualunque cosa farete a questi vostri fratelli la ritengo fatta a me.”
È la stessa osservazione di Hannah Arendt, che ragionando sui pochi giusti tedeschi, osservò che molti di loro non vollero collaborare con i nazisti, non perché fossero spinti da un eroico altruismo, ma perché altrimenti avrebbero perso il rispetto di sé. Il male compiuto verso gli altri era un male che sentivano sulle loro spalle. Da questo sentimento del tutto normale molti agirono senza nemmeno rendersi conto del rischio a cui andavano incontro.


È questa la grande forza della vicenda di Focherini e oggi vorremo che nella Chiesa ci sia la consapevolezza che il riconoscimento della santità sia pensata per il valore di un uomo normale, e non con l’esaltazione  di un martire votato consapevolmente al sacrificio. Non sappiamo se è così, ma ce lo auguriamo.
Sarebbe una piccola rivoluzione che tanto farebbe bene all’insegnamento delle virtù alla portata di tutti e che, come dicevano gli stoici, ci fanno vivere meglio e in definitiva più felici.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

28 maggio 2012

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