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​I giusti del Mediterraneo: come ieri agiscono nel vuoto dell’indifferenza

editoriale di Gabriele Nissim

Nel Parlamento italiano è avvenuto un fatto storico. Per la prima volta, la definizione di Giusti è stata utilizzata per dare valore a chi si prodiga nel Mediterraneo per salvare i migranti che fuggono dalla fame e dalle persecuzioni.

Il grande merito è stato dell’onorevole Milena Santerini, che ha presentato in un convegno le figure di quanti agiscono oggi con lo stesso spirito di coloro che si assunsero una responsabilità morale nei confronti delle vittime del nazismo.

Il punto in comune tra i Giusti del Mediterraneo e quelli della Shoah è che essi, sia pure in condizioni completamente diverse, agiscono nello spazio vuoto lasciato dalle istituzioni internazionali.

Allora il mondo era sordo di fronte al destino segnato degli ebrei, oggi invece esiste una grande indifferenza nella maggior parte degli Stati europei, che si dimostrano contrari ad accogliere i profughi in fuga attraverso l’Italia. La Commissione europea non è ancora giunta a un accordo per la ricollocazione di 40 mila immigrati sbarcati sulle coste italiane, mentre in Italia alcune regioni del Nord guidate da Lega e Forza Italia si rifiutano di dare ospitalità ai migranti.

A questa indifferenza si aggiunge il fallimento di molti Stati mediorientali in mano a bande armate e a gruppi fondamentalisti, come nel caso della Siria e della Libia.

Ci si aspetterebbe allora una grande iniziativa internazionale per affrontare in modo globale la situazione africana e mediorientale, ma invece non esiste nessuna azione politica che ponga fine allo sterminio di massa in Siria; e l’Europa, nonostante gli sforzi del Ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, non trova il modo di creare un governo stabile in Libia, diviso tra fazioni in guerra, mentre l’Isis ogni giorno conquista nuovi territori.

Se in quei luoghi la situazione non cambia, assisteremo nei prossimi mesi a un esodo biblico di centinaia di migliaia di migranti verso le coste italiane. Nessuno osa dire - se non in modo strumentale e demagogico - che, se il problema non viene affrontato alle radici e non si superano le divisioni di parte, ci troveremo a breve di fronte a una situazione ingovernabile e destabilizzante per l’Italia, ma anche all’interno della comunità europea.

Ecco perché, come è stato ricordato nel convegno di Roma, essere Giusti significa  non aspettare che il mondo cambi indirizzo, ma assumersi comunque una responsabilità. Anche se si tratta di una goccia nel mare, le iniziative di chi aiuta e presta soccorso ai migranti non solo ci ricordano l’eroismo dei soccorritori del passato, ma possono forse diventare un modello morale per rompere il muro di omertà che si respira in questi giorni.

Può sembrare un paradosso in questa situazione tragica, ma l’esempio di chi oggi nelle acque del Mediterraneo compie azioni di bene può diventare motivo di emulazione e di orgoglio nazionale.

Si pensi ai salvataggi quotidiani della Guardia Costiera italiana. Ciò che è impressionante non è solo la professionalità di questi uomini e donne, ma come la vita di molti di questi comandanti e marinai sia profondamente cambiata. Alcuni infatti si sono offerti di adottare dei bambini che hanno perso in mare i loro genitori, altri si sono impegnati per spingere le popolazioni locali a prendersi cura dei salvati.

Regina Catambrone, che insieme a suo marito Christopher ha creato il Moas, una Ong che i coniugi hanno finanziato con 8 milioni di dollari, e ha messo a disposizione un’imbarcazione di 40 metri, gommoni di salvataggio e persino due droni - ha spiegato molto bene che vedere gli abissi dell’umanità in quel mare a un certo punto cambia la vita.

In quelle barche di profughi, abbandonati in mare al loro destino, viaggiano creature trattate peggio degli schiavi, che ricordano la lotta per sopravvivenza degli ebrei nei campi di concentramento prima della morte.

Agli scafisti, che prendono i soldi prima di intraprendere il viaggio, non importa nulla della vita di quelle persone e le lasciano morire senza nessuna pietà.

Chi assiste a tutto questo non può rimanere in silenzio.

È nata persino un’associazione, diretta da Cristina Cattaneo, docente dell'Università degli Studi di Milano, il cui scopo fa venire in mente il grido di dolore della grande poetessa russa Anna Achmatova, lanciato ai tempi del terrore staliniano quando scrisse che di fronte ai corpi gettati nelle fosse comuni bisognava perlomeno cercare di dare un nome alle vittime per non dimenticarle. Era questa la richiesta dei parenti che andavano in fila davanti alla prigione di Leningrado per cercare invano di avere notizie dei loro cari.

“Le volevo chiamare tutte per nome, ma mi hanno preso l’elenco e non so che cosa fare. Con i poveri suoni che ho inteso da loro ho tessuto un largo manto, le ricorderò in ogni dove.”

La disperazione delle famiglie delle vittime del mare che non possono dare sepoltura ai propri cari ha spinto Cristiana Cattaneo ad avviare un progetto pilota per dare un nome, attraverso la ricerca del DNA, a quei corpi irriconoscibili.  

La storia drammaticamente si ripete.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

10 giugno 2015

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