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La questione ebraica in Ungheria

Riflessioni sul convegno dedicato a Wallenberg e Perlasca

Il convegno organizzato da Cinzia Franchi e dall’Università di Padova in ricordo di Giorgio Perlasca e Raul Wallenberg è stato uno dei tentativi più riusciti di ragionare in Italia attorno alla memoria dei giusti.
Non è stato infatti un appuntamento di tipo celebrativo, ma ha permesso di affrontare importanti interrogativi che dividono storici e politici.


Sulla figura di Raul Wallenberg, il diplomatico svedese che salvò migliaia di ebrei a Budapest, lo scrittore Georg Sessler, la cui famiglia gli deve la vita, ha sottolineato come non sia importante crearne un mito e ingigantire il numero dei salvataggi, ma sottolineare il suo coraggio. Si comportò in un certo modo perché non aveva pregiudizi antisemiti, avendo lavorato per una ditta ebraica in Svezia e successivamente ad Haifa. La sua morte apparentemente misteriosa a Mosca si spiega per un motivo molto semplice. Ai russi non importava nulla che egli avesse salvato degli ebrei, ma dava fastidio che lavorasse a Budapest come informatore degli americani. Così venne ucciso alla Lubianka come uno dei tanti “nemici del popolo”. Su Giorgio Perlasca, il figlio Franco ha giustamente ricordato come la sua figura, fino alla scoperta del giornalista Enrico Deaglio, venne messa per anni in naftalina per il suo passato fascista, non compatibile con la retorica del politically correct. Se non fosse stato ricordato da alcuni degli ebrei salvati a Budapest, probabilmente nessuno in Italia se ne sarebbe mai occupato.


Eppure, nonostante queste storie e le seicentomila vittime della Shoah in Ungheria, la questione ebraica ancora oggi a Budapest rimane oggetto di dibattito. Il ricorrente antisemitismo si spiega, ha ricordato Gian Luca Volpi, con la politica di assimilazione artificiosa portata avanti dal regno di Ungheria dopo il 1918. Come aveva intuito il grande politologo Itsvan Bibo, sarebbe stato necessario procedere con un processo di integrazione, riconoscendo le particolarità ebraiche e non sopprimendole. Così durante le persecuzioni antisemite gli ungheresi guardavano agli ebrei come gente non sufficientemente assimilata e dunque come persone sospette, mentre a loro volta gli ebrei non si difendevano a sufficienza perché pensavano di fare parte al cento per cento della nazione ungherese. E ancora, durante gli anni del comunista Kadar, gli ebrei si autocensuravano, perché avevano paura che la loro identità potesse creare dei conflitti con gli ungheresi.


E oggi la questione ebraica rimane complicata proprio a causa dell’eredità comunista, come ha sottolineato nella sua bella relazione Attila Pok dell’Accademia delle scienze di Budapest.
A differenza della Germania, dove dopo il dibattito tra gli storici degli anni 80, si è fatta chiarezza sui carnefici e sui responsabili del nazismo, non così avviene oggi in Ungheria. È infatti considerato lecito onorare con dei monumenti l’ammiraglio Miklós Horty, responsabile della politica filo nazista, o il primo ministro LaszloTeleki, che introdusse le legislazioni antisemite, come se fossero degli eroi nazionali da cui prendere esempio. Così quando gli ebrei oggi protestano per queste scelte sono additati come dei critici del patriottismo ungherese. È un fenomeno simile a quello che accade oggi in Bulgaria con la riabilitazione di re Boris. La critica al totalitarismo comunista crea un cortocircuito. Si ricordano i leader antisemiti e filo-nazisti, come se fossero il meglio della tradizione nazionale.


E gli ebrei che non ci stanno vengono accusati di coprire le responsabilità del comunismo.
Cinzia Franchi ha poi avuto il merito di ricordare Hannah Szenes una  “giusta” ungherese (così vorrebbe essere chiamata) che nella sua brevissima vita ebbe il coraggio di andare sempre controcorrente e di non tradire mai nessuno per le sue idee. Durante le persecuzioni antiebraiche divenne una fervente sionista e si trasferì in Palestina, non per fare l’intellettuale, ma per dimostrare che una donna poteva fare la contadina. Era paladina dell’emancipazione femminile.
Quando si accorse che il nascente stato ebraico era impotente di fronte all’Olocausto, si arruolò nell’esercito inglese e, dopo un corso intensivo di paracadutismo, si lanciò con degli amici in Jugoslavia per combattere i tedeschi. Arrestata e trasferita a Budapest non parlò, nonostante le torture e l’arresto di sua madre. Affrontò il plotone di esecuzione a 23 anni, anche se i nazisti le avevano promesso di graziarla qualora avesse fatto i nomi dei suoi complici. Di lei ci rimangono le bellissime poesie e una straordinaria storia di responsabilità di fronte al male. Hannah meriterebbe di diventare eroina nazionale in Ungheria, ma molte distorsioni storiche lo impediscono.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

31 ottobre 2012

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