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Il genocidio in Cambogia, 41 anni dopo

di Claire Ly

Sono passati 41 anni dalla presa del potere dei Khmer Rossi in Cambogia, il 17 aprile 1975. Questo regime, noto con il nome di Kampuchea Democratica, protrasse la sua esistenza funesta dal 1975 al 1979. Non durò che tre anni, otto mesi e venti giorni, ma, in quel tempo di poco inferiore ai quattro anni, la Kampuchea Democratica ha battuto due record: quello della brevità di un regime comunista e quello della percentuale più alta di popolazione sterminata.

Il 6 giugno 2003, un accordo concluso tra il governo della Cambogia e il Segretario Generale delle Nazioni Unite prevedeva che gli ultimi dirigenti dei Khmer Rossi sarebbero stati giudicati da una giurisdizione ibrida, che riuniva giudici internazionali e giudici cambogiani. Questa giurisdizione è nota con il nome di CETC, dal francese “Camere straordinarie in seno ai tribunali cambogiani”, dette anche “Tribunale per i Khmer Rossi”.

Il primo processo inizia il 17 febbraio 2009, ed è il processo a un regime totalitario che ha fatto del mio Paese d’origine un banco di prova di un’ideologia assassina. Due milioni di morti: questo il bilancio delle vittime stimato infine dalle CETC con il verdetto del primo processo, emesso nel 2009. Mio marito, mio padre e i miei due fratelli sono stati fucilati assieme ai trecento notabili della mia città natale, Battambang, quando i Khmer Rossi sono giunti al potere.

Il 7 agosto 2014, questo tribunale ha condannato al carcere a vita due vecchi responsabili dei Khmer Rossi: Nuon Chea, 88 anni, e Khieu Samphan 83 anni, per aver pianificato e supervisionato le deportazioni da tutte le città della Cambogia il 17 aprile 1975 e i giorni successivi.

La memoria della Cambogia è una memoria collettiva ferita da questo eccidio di massa che ha prodotto lo sterminio di un quarto della sua popolazione tra 1975 e 1979.

Vittima della politica di purificazione e sterminio dei Khmer Rossi, la parola in me fu messa a tacere per lunghi anni dalle violenze fisiche e psicologiche subite. Oggi, il linguaggio riaffiora in me come un mormorio. Io spero che questo mormorio non sia solamente costituito da parole di condanna, perché in tal caso sarebbe formato da parole di rottura che giudicano. La Cambogia ha invece bisogno di parole che aiutino a evolversi per ricominciare a vivere insieme nella fiducia.

Ogni testimone di un crimine contro l’umanità ha una grande responsabilità verso la società: quella di trovare un canale discorsivo per comunicare alla generazione successiva l’inaccettabile. Tale canale discorsivo chiede a ciascun testimone di compiere un importante lavoro su se stesso: un lavoro psicologico e un lavoro spirituale, anche, per poter pronunciare parole giuste, le parole che servono per condividere le ferite della memoria.

La giustizia delle parole ci permette di evitare di cadere in una nostalgia paralizzante che relega ogni “memoria condivisa” all’ambito della vittimizzazione.

Chiamata a testimoniare di questa memoria ferita alla nuova generazione, l’espressione “lavoro di memoria” di Paul Ricœur è divenuta imprescindibile per me.

Per il suo carattere laborioso, il dovere della memoria ci permette collettivamente di interrogare il nostro rapporto con il passato al fine di inventare l’avvenire. Esso implica una restituzione, tanto individuale, quanto collettiva. Ci porta a ingaggiare un lavoro d’intelligenza che ci spinge a comprendere e spiegare gli ingranaggi della violenza. Ci obbliga a riguardare la nostra propria assenza di umanità. Perché all’interno di ciascuno di noi dorme una parte crudele. E, in date circostanze, questa parte di crudeltà può cristallizzarsi in pulsione di morte.

Il lavoro della memoria implica del tutto naturalmente il lavoro di indagine introspettiva, di comprensione.

Il lavoro di comprensione è, prima di tutto, un dovere verso le vittime, tutti coloro che sono stati massacrati senza poter dire una parola… Quando il male ci colpisce, qualunque essere umano si pone sempre una questione esistenziale molto semplice: “Che senso ha tutto questo? Perché a me? Che cosa ho fatto dunque?”.

I carnefici non ignorano affatto questa domanda che abita le loro vittime… in “Se questo è un uomo”, Primo Levi ha ricevuto questa risposta sferzante appena arrivato ad Auschwitz: “Qui, non ci sono più perché”.

Uno degli slogan dei Khmer Rossi è: “Non vedere nulla, non sentire nulla, non sapere nulla, amare e obbedire all’Angkar (l’istituzione) senza porsi domande”.

È a causa di questo comandamento del silenzio, imposto dai carnefici alle loro vittime, che la volontà di comprendere diventa un dovere morale…

Un dovere morale verso le nuove generazioni è di cercare di dire con intelligenza ciò che è successo sotto i Khmer Rossi. Un dovere al quale nessun testimone può sottrarsi.

Ma comprendere non equivale a perdonare, né a relativizzare il crimine. Comprendere non impedisce di condannare. Ci libera dall’ossessione della paura. Comprendere permette di porre una distanza tra le emozioni e l’agire.

Il dovere della comprensione permette di ritrovare la dinamica della memoria, che non è una memoria fittizia, ma una memoria capace di coniugare il presente con il passato per rivolgersi all’avvenire… una memoria che ha l’audacia di lasciarsi interrogare dagli avvenimenti storici.

Il lavoro di memoria permette di superare i traumi, dona alla vita una capacità creativa…

È questa capacità di creare che lenisce le ferite della memoria.

Questa memoria rappacificata contribuisce a modellare la nostra identità. Nessuno di noi è un blocco immutabile, ma ciascuno è il prodotto di una storia di vita, che è una storia di vita personale, individuale, certamente, ma anche una storia di vita intrecciata con le vite degli altri. E ciascuna piccola storia di vita privata contribuisce alla grande storia, alla storia collettiva.

Quarantun anni dopo, la società cambogiana fatica ancora a scrivere la pagina dolorosa della sua storia, perché non c’è alcuna volontà politica per aiutarla a compiere questo percorso. Un “non detto” gravido di conseguenze pesa sulle nuove generazioni.

Il popolo cambogiano riserva alle CETC (il tribunale internazionale per giudicare i khmer rossi) un’accoglienza alquanto tiepida. Fin dalla sua creazione nel 2006, l’Unione Europea è uno dei principali donatori di questa giurisdizione internazionale che è profondamente influenzata dal sistema giuridico occidentale. Il popolo khmer ha bisogno che la giustizia non sia solo penale, ma anche “restaurativa”, a immagine della “Commissione Verità e Riconciliazione” in Sudafrica.

Mai, in maniera più compiuta di oggi, si è applicata in Cambogia la frase di Primo Levi: “Chi ignora il suo passato è condannato a riviverlo”.

La conoscenza della storia è una difesa contro il totalitarismo le cui radici profonde si sviluppano nel corso di molti anni nella società, senza che ce ne si accorga per tempo. 

14 aprile 2016

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