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"Non credere, non temere, non chiedere nulla"

Khodorkovsky racconta il gulag

Le Monde ha pubblicato il 26 gennaio un'intervista in esclusiva a Mikhail Khodorkovsky, ex uomo più ricco della Russia che per gli ultimi dieci anni e tre mesi, fino al 20 dicembre 2013, è stato uno "zek", un prigioniero politico nelle colonie penali di Putin. Di seguito riportiamo alcune delle sue affermazioni più significative. 
Nessuno credeva che lei sarebbe uscito dalla prigione

"Non lo credevo neanch'io. Quando ci viene promesso qualcosa di positivo, bisogna cercare di non prestarvi attenzione, di non provare sollievo perché se lo si prova invano, in seguito è dura. Ognuno ha la sua maniera di reagire. La mia è di vivere seguendo il principio 'non credo, non temo, non domando nulla'. Se Hans Dietrich Genscher [ex ministro tedesco] non mi avesse suggerito di domandare la grazia, non l'avrei neanche fatto". 

Perché Putin ha deciso di liberarla? 

"Lo domando a tutti. Secondo la mia personale versione dei fatti, una parte dell'entourage del Presidente si è preso troppa libertà. Liberarmi era un modo di dimostrare ad alcuni personaggi ben identificati che non era possibile influenzare sempre le sue decisioni. Io faccio le mie scelte da solo. Non sono sicuro che sarebbe un buon sistema per dirigere il Paese, ma se uno ha costruito una struttura di potere verticale, tutto viene di conseguenza". 

Lei si è trovato prigioniero in una "zona nera". Di che cosa si trattava? 

"Nell'universo dei campi di detenzione russi ci sono tre tipi di zone, o tre categorie di regole interne, se così vogliamo dire. La zona normale è la zona "di regime", poi ci sono zone "nere" e zone "rosse". In quelle nere comandano i detenuti di diritto comune". 

Come nel sistema staliniano?

"Non è più come all'epoca di Stalin, ma sono piccole "autorità" sulle quali si appoggiano i dirigenti del campo. Qui vige la "nozione", una forma di regola molto diversa dal "bordello" delle zone rosse, l'arbitrio completo. E ci sono alcune "regole" molto diverse anche dalle zone di regime, per esempio la libertà ai detenuti che cucinano di mettere da parte alcune porzioni". 

Dov'è meglio essere rinchiusi? 

"Per il 90% dei prigionieri è preferibile l'ordine che regna nelle zone di regime. Per il 10% cge dispone di qualche risorsa o forma d'autorità nel campo, è meglio la zona nera. Qui ci sono il telefono, cibo, vodka e droga. Io sono stato prima messo in "quarantena" in una baracca in disparte, poi inserito nella zona nera. Ai tempi di Solzenycin e Shalamov, che ho letto, dopo la quarantena il detenuto veniva sottoposto al vaglio di un "osservatore" che controllava come si adattava. Adesso c'è un detenuto che spiega i dettagli all'arrivo, una forma di "istruzione". Si tratta in entrambi i casi di cercare di capire dove un detenuto andrà a collocarsi nella gerarchia del campo. Quello che stupisce è che le commissioni che assegnano i compiti ai prigionieri, pur essendo degli organismi ufficiali, fanno domande in gergo del campo, come per esempio: "Chi è lei nella mala?" o "Chi è lei nella gattabuia?". Quando mi sono sentito porre quelle domande non da un detenuto qualunque ma in un ufficio regolare sono rimasto disorientato, ho avuto come una dissonanza cognitiva". 

E lei che ruolo ricopriva? 


"Quello di prigioniero politico. E c'era una differenza capitale con gli altri, che erano contrassegnati da un colore. Da un lato potevo tranquillamente contattare l'amministrazione penitenziaria, apostrofarla, indirizzarle un reclamo.. Ma dall'altro per ciò stesso appartenevo per gli altri prigionieri a una categoria che preferirei non nominare". 

Le puttane? 

"Sì, sì. Ho dovuto precisare ai miei compagni che non c'era niente di cui dovessi vergognarmi nei miei rapporti con l'amministrazione. Per fortuna mi hanno creduto e mi hanno considerato semplicemente come un extraterrestre, a cui viene permesso molto e con cui si può avere a che fare in definitiva". 


Si sentiva minacciato dagli altri detenuti? O dall'amministrazione?

"No. E d'altra parte se mi fossi preoccupato che cosa avrei potuto mai fare per proteggermi?".

Durante la sua detenzione ha scritto molti articoli per i giornali stranieri. Si percepisce un cambiamento della sua visione del mondo in quegli scritti. Ha parlato di letture e di scoperte intellettuali. Che cosa realmente le è accaduto? 

"Per non disperarmi e per non perdere il filo in quei lunghi anni di prigionia, mi sono dato come obiettivo di capire a che cosa può arrivare l'uomo, e ho dunque obbligato me stesso a letture serie, opere di filosofia. Non dico che mi piacessero, per me era un obbligo leggerle. E a poco a poco mi sono reso conto che per quanto leggessi non riuscivo a raggiungere una risposta. Mi sono sprofondato nella lettura delle opere letterarie. Non ho mai letto tanto in vita mia. Non sapevo niente della storia della Russia, per esempio. Ho scoperto un'autrice francese che sostiene l'impossibilità di raggiungere i fini. Secondo lei bisogna concentrarsi sui mezzi, che se sono morali rendono i fini morali. Come i mezzi immorali rendono immorali anche i fini, indipendentemente da ciò che fosse sembrato all'inizio".  

Pensa spesso al giudice Danikin che l'ha condannata a 14 anni? 

A volte sì. All'inizio mi domandavo se avesse capito ciò che succedeva. Poi mi è capitato di pensarci con un senso di rifiuto. 

Ora ne prova pietà? 


È difficile da dire, ma possiamo dire anche di sì. 

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