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È possibile superare la tortura?

Lezioni dalla storia del sopravvissuto alla Shoah e filosofo Jean Améry

Jean Améry è un famoso intellettuale del Novecento, testimone dell'orrore nazista, che visse sulla sua pelle, subendo le torture della Gestapo in un carcere del Belgio e un anno di internamento ad Auschwitz. La studiosa Michal Aharony gli ha dedicato un saggio su Haaretz del 15 novembre 2018, sottolineando il valore unico della testimonianza dell'autore di Un intellettuale ad Auschwitz, suicida nel 1978, e la sua attualità in un mondo in cui la tortura è ancora ampiamente diffusa, in alcuni casi per la speranza o illusione che possa servire a sradicare il male del terrorismo. 

Ci sono voluti 20 anni al saggista originario dell’Austria Jean Améry prima che fosse in grado di scrivere della tortura subita per mano della Gestapo. Oggi, 40 anni dopo il suo suicidio, il suo punto di vista è ancora attuale.

“Chiunque ha subito la tortura non può più sentirsi a casa nel mondo. La vergogna della distruzione non si può cancellare. La fiducia nel mondo, che era già in parte collassata sotto al primo colpo, e alla fine completamente, sotto tortura, appieno non si potrà più riacquistare”. Jean Améry, “Tortura” (1966)

Il trauma causato dalla tortura può essere superato? La dignità umana che è stata revocata si può riconquistare? Queste sono alcune delle domande a cui ha cercato di rispondere Jean Améry, un intellettuale e sopravvissuto alla Shoah i cui scritti filosofici ritraggono lucidamente il mondo di molti sopravvissuti dell’Olocausto. Le conclusioni che ha tratto dalle sue esperienze personali rimangono attuali anche oggi, in un’epoca in cui molti Paesi, incluse alcune democrazie, continuano a torturare i detenuti nelle stanze degli interrogatori.

Améry, che si suicidò 40 anni fa, era nato Hans Mayer il 31 ottobre 1912. Era l’unico figlio di una famiglia di madre cattolica e padre austriaco, un ebreo assimilato che rimase ucciso nella Prima guerra mondiale. Iniziò a studiare Filosofia e Letteratura all’università, a Vienna, e fece diversi lavoretti: il portinaio, il messaggero e il pianista nei bar.

Negli anni ’30, realizzando un vecchio sogno, Améry (che cambiò nome in seguito alla Seconda guerra mondiale), iniziò a dedicarsi alla scrittura letteraria che era la sua passione di una vita, e pubblicò anche un giornale. Nel 1937, sposò Regine Berger, una giovane donna ebrea originaria dell’Est Europa. I due fuggirono in Belgio un anno dopo, in seguito all’annessione tedesca dell’Austria.

Nel 1940, Améry fu arrestato dai belgi come straniero tedesco e deportato nel sud della Francia, dove fu incarcerato in diversi campi, incluso quello di Gurs. Fuggì nel 1941 e tornò in Belgio, dove si unì al movimento di Resistenza. Arrestato di nuovo nel 1943, catturato mentre distribuiva materiale di propaganda anti nazista, questa volta fu inviato nel campo di prigionia di Breendonk, dove fu brutalmente torturato dalla Gestapo. Quindi fu deportato ad Auschwitz (Monowitz), dove trascorse quasi un anno. Dopodiché fu inviato a Buchenwald e a Bergen-Belsen, da dove fu liberato nel 1945 dagli inglesi.

Perdita di fiducia

Dopo la guerra, Améry tornò a Bruxelles, dove trascorse il resto della sua vita. Fu qui che scoprì che mentre era ad Auschwitz, sua moglie era morta di un male al cuore. Per 20 anni si guadagnò da vivere grazie al giornalismo e ad altri scritti, soprattutto per pubblicazioni svizzere. Durante questi due decenni non pubblicò altro sul suo passato e si rifiutò anche di pubblicare per il pubblico tedesco o perfino di visitare la Germania. Più tardi avrebbe chiamato questo periodo “20 anni di silenzio”. Non fu prima del 1964, durante il periodo del secondo processo per Auschwitz tenutosi a Francoforte – a carico di 22 criminali di guerra di livello medio basso – che Améry scrisse il primo dei cinque saggi del libro che lo ha reso famoso, intitolato in inglese, “At the Mind’s Limits” ("Ai limiti della mente umana", Indiana University Press, tradotto da Sidney Rosenfeld e Stella P. Rosenfeld).

Prima di tutto, “At the Mind’s Limits” è la confessione e testimonianza personale di un sopravvissuto alla Shoah, che riflette sul suo passato con una prospettiva di molti anni. Esso consiste in “contemplazioni di un sopravvissuto di Auschwitz e delle sue realtà”, come indica il sottotitolo dell’opera.

Secondo il dr. Roy Ben-Shai, che insegna Filosofia al Sarah Lawrence College di New York e ha studiato le opere di Améry, ciò che è eccezionale nella sua opera è il modo in cui integra fra loro la scrittura filosofica e letteraria e la testimonianza personale.

“C’è un valore aggiunto in un’analisi filosofica dei valori e concetti tradizionali alla luce dell’esperienza personale in una situazione limite, come l’incarcerazione in un campo di concentramento”, osserva Ben-Shai. “Améry utilizza la propria esperienza di vittima per controllare e rivedere i valori e le idee della filosofia, di qui la sua importanza non solo come sopravvissuto alla Shoah che scrive la propria testimonianza, ma anche come filosofo”.

Améry non si è sforzato di offrire un’analisi obiettiva che spiegasse il regime nazista. Infatti, come afferma in “At the Mind’s Limits,” il regime nazista in quanto tale non lo interessava in maniera particolare. “Non posso fare altro che dare testimonianza”, scrisse. Il suo interesse era rivolto alle vittime del Terzo Reich. Il libro, come spiega nella prefazione, è una descrizione fenomenologica dell’esistenza della vittima. Centrale per questa esistenza era la lotta del regime nazista per privare le vittime della loro dignità umana. “Dignità” non è un termine chiaro in se stesso, e la nozione che Améry sviluppa di questo concetto cambia durante la stesura del libro.

Non so se la persona che viene picchiata dalla polizia perda la sua dignità”, scrive nel saggio intitolato “Tortura,” aggiungendo, “Tuttavia sono certo che proprio al primo colpo che cala su di lui egli perde qualcosa che potremmo forse chiamare temporaneamente ‘fiducia nel mondo’”.

È probabile che persone diverse, scrive Améry, intendano la nozione di dignità umana in maniera diversa. Una persona riterrà di avere perso la sua dignità quando le impediscono di farsi il bagno ogni giorno; un’altra quando è costretta a parlare con un ufficiale in una lingua che non è la sua; e una terza avvertirà che la sua dignità umana è violata se non può avere relazioni con un partner dello stesso sesso.

Secondo Améry, la dignità umana è un valore etico essenziale che il progetto nazista cercò di sradicare. La sua negazione si manifesta prima di tutto con la minaccia della morte, che egli aveva avvertito per la prima volta con chiarezza nel 1935, quando le leggi razziali tedesche, le cosiddette leggi di Norimberga, erano entrate in vigore. La definitiva negazione della dignità umana è la consapevolezza che la propria vita di perseguitato è costantemente a rischio. Améry, che non era stato cresciuto come ebreo, scoprì la propria ebraicità a seguito delle violenze antisemite che dovette subire. Vent’anni dopo, egli tracciò una linea retta tra le leggi di Norimberga e la Soluzione Finale, ma, secondo, lui l’umiliazione degli ebrei era iniziata molto tempo prima di Auschwitz. Per lui, la perdita della dignità si era espressa nella sua espulsione dalla propria comunità, dalla propria cultura e dal proprio Stato, e dall’esperienza di ritrovarsi senza un tetto. Dopo avere subito detenzioni arbitrarie, brutali torture e, infine, l'inferno di Auschwitz per un anno, Améry intuì che una persona ha bisogno di una patria – precisamente per poter dire che non ne ha bisogno. Una patria, egli spiegò, conferisce sicurezza, protezione e senso di appartenenza, la stessa familiarità che è conferita a una persona dalla propria lingua materna.

Una delle asserzioni centrali di Améry è che per poter vivere da esseri umani abbiamo bisogno del consenso e del riconoscimento della società: essere umani comporta essere membri di una certa nazione, di un “gruppo sociale identificabile”, come egli scrive. Gli ebrei, tuttavia, erano diventati un elemento estraneo nel proprio Paese, e le loro facce e fisionomie erano diventate odiose, degne di ogni disprezzo e ripugnanti per le persone intorno. “Non eravamo degni di amore e nemmeno della vita”, aggiunge in un saggio intitolato “Sulla Necessità e Impossibilità di essere un Ebreo”.

Il significato della dignità umana può essere colto tra le righe invertendo l’identificazione formulata da Améry: se la privazione della dignità umana è privazione della vita (vale a dire consiste nella minaccia di morte), allora la dignità umana è il diritto alla vita. La dignità di un essere umano può essere concessa solo dalla società. Al contempo, Améry è convinto che una persona che è stata privata della dignità e affronta il pericolo di morire “può convincere la società della propria dignità facendosi carico del proprio destino e allo stesso tempo ribellandosi contro di esso”.

L’essenza del nazismo

Nel suo saggio “Sulla Necessità e Impossibilità di essere un Ebreo”, Améry rievoca un giorno ad Auschwitz nel quale è stato picchiato senza motivi evidenti da un kapo polacco. Anche se il kapo era molto più forte di lui, Améry ha sentito di dover rispondere all’attacco. In un atto di aperta ribellione, colpì l’uomo in pieno volto. “La mia dignità umana risiedeva nel mio gancio sulla sua mascella”, scrive Améry. Egli fu picchiato a sua volta, ma non gli importava: nonostante il dolore, avvertì un senso di soddisfazione, non perché era stato coraggioso o aveva cancellato l'affronto, ma perché aveva capito che “ci sono situazioni nella vita, nelle quali il nostro corpo è tutto il nostro essere e tutto il nostro destino”.

Améry continua: “Io ero il mio corpo e niente più: nella fame, nel colpo che avevo subito, nel colpo che io stesso avevo assestato. Il mio corpo, debilitato e incrostato di sporcizia, era la mia calamità. Il mio corpo, quando si tendeva per colpire, era la mia dignità fisica e metafisica. In situazioni come la mia, la violenza fisica è il solo mezzo per ripristinare una personalità dissociata. Nel pugno, io ero me stesso - per me stesso e per il mio avversario”.

La prima volta che l’umanità di Améry fu ridotta unicamente al suo corpo avvenne in una stanza per interrogatori della Gestapo in Belgio, e poi ancora ad Auschwitz, dove fu esposto al freddo, alla fame e alle percosse. Ciò non di meno, fu precisamente in quel momento che egli fu in grado di ristabilire – attraverso il proprio corpo e il colpo che restituì – la sua dignità umana perduta. La sua maniera di ribellarsi contro la sentenza di morte che pendeva su di lui in quanto ebreo, e di ritrovare la sua dignità umana, non “era quella del fare appello alla sua astratta umanità, ma quella dello scoprire se stesso, all’interno di quella realtà sociale, come un ebreo ribelle, realizzandosi in quanto tale”.

Certamente, il suo saggio “Tortura” è uno dei più sconvolgenti del libro“At the Mind’s Limits.” La tortura, nella percezione di Améry, costituiva proprio l’essenza del regime nazista; è “l’evento più terribile di cui una persona possa serbare memoria”. Ua volta, le braccia di Améry vennero legate dietro la sua schiena e fu appeso dalle mani a una catena legata al soffitto; di lì a poco le sue spalle si lussarono. Questo era uno dei metodi usati negli scantinati della Gestapo e nelle baracche punitive dei campi di concentramento. Ventidue anni dopo la tortura, egli li vedeva ancora. “Chiunque venga torturato, rimane torturato. La tortura viene impressa a fuoco dentro lui o lei, anche se non se ne possono più rilevare tracce obiettive dal punto di vista clinico”, ha scritto.

“Améry presenta un quadro molto analitico della tortura, ma ciò nasce dalla sua stessa esperienza personale,” dichiara Dr. Rachel Stroumsa, direttore della Commissione Pubblica contro la Tortura (Public Committee Against Torture) in Israele. “Anche se sono passati oltre 50 anni da quando il saggio fu scritto, non sono al corrente di nessuna altra opera che penetri l’essenza della tortura così precisamente e acutamente. E specialmente alla luce del suo contributo a capire che la tortura non è solo questione di dolore fisico, ma rompe e spezza fondamentalmente e irreparabilmente la fiducia di una persona in se stessa e nella sua esistenza. Questo contributo afferma che il primo colpo – anche se all’esterno non sembra la cosa peggiore – causa danni irreparabili. Non esiste una tortura illuminata”.

La tortura, sottolinea Stroumsa, è ancora in uso in molti Paesi, anche non viene ammesso. Eritrea, Cina e Siria sono tra i Paesi che la praticano. Anche la Turchia e il Messico fanno un uso sistematico e istituzionale della tortura, proprio come la Georgia fino a due anni fa. Anche Paesi democratici come gli Stati Uniti hanno utilizzato la tortura, come rivelano le testimonianze dei prigionieri trattenuti nel complesso carcerario di Guantanamo Bay. In Israele, afferma la studiosa, pur non essendoci un uso massiccio della tortura, essa è “sistematicamente utilizzata, con il consenso delle autorità, negli interrogatori di sicurezza. Il personale della Difesa riceve un’immunità completa e assoluta”.

I palestinesi sono le vittime principali delle torture usate dal servizio di sicurezza Shin Bet, ma anche gli ebrei che sono stati interrogati in relazione a reati contro la sicurezza hanno lamentato di avere subito tortura.

Secondo Strousma, “anche se oltre 1,100 denunce di torture sono state presentate contro lo Shin Bet dal 2001, non è stata comminata alcuna sentenza, e a oggi è stata avviata solamente un’indagine penale”.

‘L’ebreo della catastrofe’

Anche se il messaggio di Améry è universale, la sua ebraicità è evidente in ogni pagina di At the Mind’s Limits. Come quella di molti ebrei europei che erano cresciuti in famiglie assimilate o miste, la sua ebraicità era basata sull’esperienza di essere perseguitato durante la Shoah. La sua identità ebraica, ammette, gli fu imposta da una forza primordiale. Si tratta di un’identità definita da una negazione: “Ogni giorno che passa perdo la mia fiducia nel mondo. L’ebreo senza determinanti positive, l’ebreo della catastrofe, deve continuare la propria vita senza fiducia nel mondo. Per lui, la sua identità di ebreo si manifesta sotto forma di infinita paura per la propria esistenza. “Essere ebreo,” scrive Améry, “non soltanto significa che porto dentro di me una catastrofe che è accaduta nel passato e non si potrà cancellare per il futuro” – ma significa anche, in altre parole, che essere ebreo vuol dire conoscere la paura.

Due decenni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Améry scrive a proposito del numero tatuato sul suo braccio: “Sul mio avambraccio sinistro porto il numero di Auschwitz; è più corto da leggere del Pentateuco o del Talmud e tuttavia fornisce informazioni più accurate. È anche più vincolante dei precetti base dell’esistenza ebraica. Se a me stesso e agli altri… io dico: sono ebreo, ciò significa che queste possibilità e realtà sono riassunte nel numero di Auschwitz… ogni mattina quando mi sveglio e leggo il numero di Auschwitz sul mio avambraccio, leggo qualcosa che tocca le radici più profonde e interconnesse della mia esistenza; e non sono nemmeno sicuro che questa non sia tutta la mia esistenza”.

Durante il suo internamento ad Auschwitz, Améry è riuscito, sia pure per un solo momento, a riacquisire la propria dignità ribellandosi contro l’ordine esistente, nel quale gli internati ebrei erano il punto più basso della gerarchia del lager. Un anno prima di suicidarsi, si definiva ancora un ribelle, ma la sua ribellione non poté guarirlo dal suo dolore. Egli lo scrisse nel 1976, nella prefazione alla nuova edizione di At the Mind’s Limits: “Mi ribello: contro il mio passato, contro la storia e contro un presente che pone l’incomprensibile nel freddo repositorio della storia e lo falsifica in un modo rivoltante. Niente ha conosciuto una guarigione, e ciò che era stato sul punto di guarire nel 1964 sta di nuovo suppurando come una ferita infetta”.

Come Tadeusz Borowski e Paul Celan prima di lui, e come Primo Levi dopo di lui, anche Jean Améry non poté sopportare il peso del passato. Aveva perso la sua patria e rimaneva smarrito; la sua fiducia nel mondo era distrutta, era condannato a convivere con la propria alienazione. Nonostante i tentativi di superare la sconfitta – attraverso la confessione e portando testimonianza – egli rimase una persona sconfitta. Nel 1978, due anni dopo la pubblicazione del suo libro On Suicide, nel quale scrisse dell’atto del suicidio come scelta di libero arbitrio, egli pose fine alla sua vita.

La dott.ssa Michal Aharony è una studiosa di materie legate alla Shoah e di Filosofia politica. Insegna alla Ben-Gurion University, ed è vicecaporedattore del giornale Dapim: Studies on the Holocaust. http://www.michalaharony.net/

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