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Interventi sull'editoriale "Moshe Landau e Hannah Arendt: una polemica che dura ancora a cinquanta anni dal processo Eichmann"

di Gabriele Nissim


Intervento di Salvatore Pennisi, docente e membro della Commissione educazione di Gariwo

Concordo pienamente con le riflessioni di Gabriele Nissim a proposito del concetto di banalità del male elaborato da Hannah Arendt. Il mio accordo è tanto più convinto quanto più rilevo che non c'è nulla di demoniaco né di titanico non solo nei comportamenti dei gerarchi nazisti, ma neanche nella coscienza di tutti quei persecutori – nei diversi contesti dei genocidi della seconda metà del ‘900 - che in nome dei loro "ideali" si ritengono legittimati a compiere qualunque efferatezza. Dirò di più: a un livello meno invasivo e certamente meno distruttivo, ma purtroppo sempre più pervasivo, si tratta dello stesso atteggiamento di violenza psicologica che fa della buona madre di famiglia, dell'onesto professionista, della signora perbene o del buon politico persecutori contemporanei con la coscienza a posto di coloro che vengono identificati come diversi o pericolosi per l'integrità della propria identità.

Anche oggi diventano sempre più frequenti i casi in cui si “chiude la mente a ogni forma di compassione”. Sì, perché ci sono stereotipi in nome dei quali ci si ritiene non solo in diritto ma anche in dovere di mettere in atto forme di autodifesa senza andare troppo per il sottile nella considerazione delle conseguenze che le proprie azioni possono produrre. Si tratta di una banale forma di deficienza di fantasia, cioè di incapacità di identificarsi in coloro che, trasformati in emblemi del male che proviene dall'esterno, diventeranno le vittime innanzitutto dell'opacità del pensiero prima ancora che degli egoismi esasperati. In verità, a mio parere, la differenza fra le motivazioni degli ideologi del terrore e i comuni membri della società civile è più di tipo quantitativo che qualitativo. I primi (gli ideologi) si limitano a inventare giustificazioni e fasulle pezze d’appoggio, normalmente sconfinanti nel mitologico o nel fantastorico, alla paranoia dei secondi (i comuni cittadini), al fine di dare dignità di ragionamento a ciò che con la ragione non ha niente a che fare.

È lo stereotipo, per altro in alcuni casi necessario, il punto di partenza comune e quindi la base comune che consente all'ideologo estremista di strumentalizzare, con diverse modalità e a diversi gradi di coinvolgimento, le reazioni emotive di coloro che in lui vedono il portavoce dei loro "valori". Alla base del razzismo, come alla base di ogni forma di esclusione e persecuzione, troviamo sempre uno stereotipo, una forma di pensiero cortocircuitata, monca. Questo processo psicologico spiega, a mio avviso, la sostanziale continuità fra quella che Primo Levi chiamava la "zona grigia" e i luoghi deputati delle decisioni genocidarie. La differenza consiste semplicemente nel fatto che gli individui comuni agiscono per una sorta di istinto primordiale di autodifesa, mentre gli ideologi forniscono a questo istinto primordiale non solo una forma teorica ma anche una giustificazione etica, o in ogni caso “ideale”
Dice Todorov che nell’orrore ci si entra un passo alla volta, inavvertitamente, senza squilli di tromba o rulli di tamburi, giorno dopo giorno, in una progressione inavvertita ma inarrestabile, fino al momento in cui l’abdicazione al pensiero e alla responsabilità individuale crea i presupposti per “normalizzare” l’efferatezza. È tutta qui e solo qui la “banalità del male”. Di qui l’importanza di una c0ostante vigilanza, non solo verso gli altri ma anche e forse soprattutto verso noi stessi, rispetto agli atti di impercettibile e forse banale intolleranza che costellano la vita quotidiana.

Perché è dal moltiplicarsi di questi atti che si può cogliere il segnale di un pericolo di degrado della vita civile ed è a partire da un contraccettivo a questi atti – da individuare essenzialmente nel costante impegno a tenere viva la memoria e a promuovere quanto più è possibile la conoscenza fra culture diverse – che si può sperare di porre un freno al dilagare del conformismo dell’intolleranza e degli interessi egoistici, punto di partenza e base comune degli eventi più tragici anche della storia recente.


Intervento di Sante Maletta, docente di Filosofia politica presso l'Università della Calabria


Tra le carte dell’archivio di Hannah Arendt conservate presso la Library of Congress di Washington ci sono vari faldoni pieni zeppi relativi al Processo Eichmann e alle polemiche che seguirono la pubblicazione del reportage dal sottotitolo ‘La banalità del male’. Si tratta dello scritto arendtiano più commentato e – come accade spesso in questi casi – meno letto e compreso. E l’incomprensione dura sino a oggi. Bene quindi fa Nissim nel riproporre la questione.


Chi non si accontenta di una critica superficiale non deve dimenticare che l’espressione ‘banalità del male’ deve molto alla lettura del romanzo ‘I sonnambuli’ di Hermann Broch, pubblicato in tre parti tra il 1929 e il 1932. Per Broch (con cui la Arendt intrattenne una profonda amicizia impreziosita da un lungo scambio epistolare) l’uomo contemporaneo tende sempre più a vivere deformando il rapporto con la realtà, da sonnambulo appunto. Sul piano morale l’esito è catastrofico, perché chi decide e agisce senza considerare la realtà nella sua ricchezza e complessità vive e pecca nell’ignoranza.


Da questo punto di vista la buonafede diviene un’aggravante in quanto, come dice Claudio Magris, “è il risultato di una lunga opera di corruzione della propria coscienza, stordita, inebriata o appannata dall'abitudine alla menzogna e al male, sino a diventare incapace di distinguere il bene dal male, sino a convincersi di essere nel giusto anche quando si macchia di colpe perché non vuole guardare in faccia la realtà, la difficoltà e la responsabilità di scegliere, la necessità di giudicare e di essere giudicata”. La stupidità che Arendt attribuisce a Eichmann è la stupidità del sonnambulo che è privo di un rapporto sano con la realtà. E di tale mancanza è egli stesso colpevole.

L’esito di valore epocale di tale forma di sonnambulismo spirituale sta nell’incapacità per l’individuo di costituire un punto di vista proprio, unitario rispetto a tutte le sfere (l’etica, l’economia, la politica ecc.) in cui si svolge l’esistenza contemporanea. La conseguenza è che ogni sfera innalza se stessa a valore assoluto e presenta i criteri che la governano come gli unici. È il fenomeno che Broch chiama ‘kitsch’ di cui sono espressione motti quali ‘gli affari sono affari’, ‘l’arte per l’arte’ ecc. L’uomo contemporaneo possiede sempre meno la capacità di giudicare tali ambiti da un punto di vista superiore e di criticarli in nome di un bene che li trascende. Il linguaggio stereotipato che Eichmann usa e di cui non riesce a liberarsi è espressione di tale assenza di una prospettiva realmente personale che trascenda il suo ruolo.
Ma senza un linguaggio umano e un punto di vista personale l’individuo è incapace di pensare. Per la Arendt il pensare è la sfera di ricerca del senso e costituisce il presupposto del giudizio e dell’azione consapevole. Pensare implica innanzitutto la capacità di immaginare, di considerare la realtà dal punto di vista altrui. Senza questo l’individuo è incapace di empatia e quindi di compassione.


A volte sembra che l’incapacità di comprendere il discorso arendtiano nasca dalla non volontà di guardare in faccia la situazione spirituale che la filosofa attribuisce all’essere umano contemporaneo, quindi potenzialmente a tutti noi. Il suo discorso è altamente inquietante perché ci tocca da vicino.


Intervento di Alessandro Matrangolo, Dottorando di Ricerca in Antropologia ed Epistemologia della Complessità presso l'Università degli Studi di Bergamo

Nelle prime pagine del suo reportage sul processo Eichmann, Hannah Arendt sottolinea come durante tutto il dibattimento sia “il giudice Landau a dare il tono; [...] è lui che fa di tutto perché l’irruente teatralità del Pubblico ministero non trasformi questo processo in una semplice messinscena”. In siffatto contesto il rischio più evidente, che la stessa Arendt sottolinea a più riprese, era che l’imputato Adolf Eichmann venisse trasformato nel capro espiatorio predisposto per la purificazione di un intero popolo che reclamava giustizia. E se questo fu evitato, in parte fu grazie anche alla Corte diretta da Moshe Landau. Nondimeno l’incomprensione che ancora ad oggi circonda il testo della Arendt, e che pure Landau sembra aver condiviso, oblitera in parte le stesse motivazioni che condussero i giudici a condannare l’imputato Eichmann, e non l’antisemitismo, il nazismo o la sua efferata ideologia nel corso della storia.
Lo scarto concettuale arendtiano che tuttora rimane incompreso, come sottolinea Nissim nelle sue riflessioni, fa riferimento all'incapacità di pensare che Arendt attribuisce al gerarca nazista e che declina la sua concezione di “banalità del male”. L’abdicazione del pensiero di cui parla la filosofa ha a che fare con l’impossibilità di rapportarsi alla realtà e al suo senso, precludendo di conseguenza all’uomo ogni possibilità autentica di agire. La destituzione di questa facoltà spirituale fondamentale, ma allo stesso tempo altamente problematica e vacillante, si situa perciò nel momento in cui il principio dell’azione viene sostituito dall’ideologia. L’intero cammino di pensiero della Arendt mostra come questo movimento sia tipico dei regimi totalitari. E il caso Eichmann costituisce la riprova di quanto ciò sia terribilmente costitutivo di individui “normali” una volta che la “logica di una idea” si sia insinuata nel loro intimo e che la realtà stessa diventi un prodotto di essa.
Sarebbe stato impossibile per quella Corte giudicare il male radicale incarnatosi nella figura di Eichmann, proprio perché il Supersenso delle ideologie è sommamente inumano. Umana è solo la capacità di smascherare gli argomenti fallaci su cui si fonda. Al contrario, l’accettazione di un senso dato e il conseguente divenire “idealisti”, nel senso in cui lo divennero il gerarca nazista e molti dei suoi connazionali in quel particolare momento storico, fornisce la cifra di una catastrofe che ancor prima di investire gli individui che ne subirono l’onta mostruosa, investì la capacità di pensare. Quella capacità spirituale che pure rimase intatta in quegli individui che misero in dubbio la “menzogna coerente” ideologica e mantennero intatto il senso della realtà e dell’agire propriamente umani.

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