Un architetto arabo e uno israeliano dialogano insieme per capire in che modo una nuova pianificazione delle città e dei territori potrebbe cambiare le relazioni tra i due popoli, tenendo conto della dignità e dei diritti di ciascuno. Lo stesso fanno gruppi misti di medici, insegnanti, interpreti, scienziati. Perché il vero cambiamento passa attraverso la comprensione dell’altro. Ma bisogna avere il coraggio di guardarsi negli occhi.
In una piccola struttura all’interno di Neve Shalom Wahat al-Salam, il villaggio in Israele in cui da anni convivono pacificamente famiglie ebree e palestinesi, studenti e lavoratori si aprono all’ascolto, per portare ciò che hanno imparato fuori, nella società.
Si chiama School of Peace, Scuola per la Pace. Un luogo educativo per adulti in cui gruppi misti di israeliani e palestinesi imparano a creare un’unica comunità consapevole, usando la parola come principale strumento didattico.
La Scuola degli adulti
“Nel 2004 ero studente di biologia e psicologia all’Università di Tel Aviv. Mi è capitato di seguire alcune lezioni molto interessanti riguardo le questioni di genere e ne sono stato molto influenzato.”
Roi Silberberg ha conosciuto la School of Peace nel 2005 attraverso un corso universitario, rimanendo folgorato dal metodo educativo proposto.
“In quei corsi le discussioni avvenivano con una visione collettiva, di gruppo, senza concentrarsi sull’individualità. Ero davvero sorpreso, così ho chiesto alla docente come lo avesse sviluppato. Lei mi rispose di averlo adottato dalla School for Peace, replicando il dialogo che avveniva tra ebrei e palestinesi.”
Silberberg è deciso a imparare il più possibile da questo metodo e l’anno successivo, pur proseguendo gli studi in biochimica, si iscrive al corso sul dialogo tra identità nel conflitto Medio Orientale, imparando da subito una lezione importante.
“Mi dissero che non avrei potuto iscrivermi perché c’erano già troppe persone israeliane e i gruppi dovevano essere equi,” racconta. “Io mi impuntai, dovevo fare quel corso, ci tenevo troppo. Allora mi dissero di portare con me un amico palestinese. Così sono tornato alla facoltà di biologia e ho conosciuto una dottoranda in chimica, Nof Atamna-Ismaeel, che ha accettato di venire con me. Oggi Nof è una chef famosa che parla di colonialismo e pace attraverso la cucina palestinese.”
Nel 2020, 15 anni dopo aver conosciuto la Scuola per la Pace, Roi Silberberg ne è diventato Direttore. Un’avventura per lui iniziata all’università, ma che comincia da molto prima.
“All’inizio lavoravamo con i ragazzi delle scuole superiori. Poi siamo arrivati alle università promuovendo percorsi in diverse strutture e infine abbiamo creato i nostri corsi per gruppi professionali.” Spiega Nava Sonnenschein, arrivata a Neve Shalom Wahat al-Salam nel 1979 e fondatrice della Scuola per la Pace. “L’obiettivo è sempre stato esercitarsi, attraverso dialogo e conoscenza, a promuovere pace ed equità tra i popoli tramite workshop e processi di dialogo tra ebrei e palestinesi.”
“Vogliamo ragionare sui modi in cui l’educazione può influenzare la società, dare una direzione di pace, equità e giustizia” prosegue Silberberg.
Dialogo, apprendimento, azione
Il senso della Scuola per la Pace è fare in modo che ciò che viene appreso durante i corsi e gli esercizi di dialogo confluisca poi nella realtà della vita quotidiana.
“Abbiamo corsi universitari che mirano a implementare il dialogo tra gli studenti da un punto di vista identitario.” Spiega Silberberg. “Perciò deve essere un confronto tra gruppi e non tra singoli individui. Ma la nostra attività principale è destinata ai lavoratori e si modula sulla base delle varie professioni. Quindi abbiamo un corso per avvocati, uno per ecologisti, uno per architetti…”
I corsi si articolano su tre elementi: c’è il dialogo ma anche l’apprendimento, quindi i gruppi imparano a conoscere le relazioni di ebrei e palestinesi integrate nelle loro specifiche professioni. In pratica, all’interno di ogni mestiere possono nascere dinamiche positive che rendano la società intera accogliente e solidale per tutti. “I partecipanti attraversano questo processo e infine si passa all’azione. Ciò significa che da loro ci si aspetta che facciano qualcosa nel mondo, nella realtà, non soltanto all’interno del gruppo”, prosegue.
Gran parte del tempo gli studenti, che non sono soltanto abitanti di Neve Shalom Wahat al-Salam, si recano fisicamente alla struttura, ma vengono organizzate anche molte attività da remoto. Questo avviene soprattutto in periodi di emergenza, come quello attuale.
“In questo momento facciamo diversi video incontri con i nostri ex studenti perché molti di loro sono sconvolti dalla situazione, vorrebbero fare qualcosa e hanno bisogno di parlare con noi.” Racconta Nava Sonnenschein. “Durante questi incontri le persone esprimono il loro senso di perdita, la rabbia, la frustrazione, tutti i loro sentimenti”.
Un'esperienza trasformativa
Uno degli aspetti più categorici della Scuola per la Pace è la presenza nelle classi dello stesso numero di studenti israeliani e palestinesi, fondamentale per mantenere una base di partenza equa. Tutte le altre caratteristiche sono variabili e variegate.
“In questi anni abbiamo lavorato con centinaia di persone” racconta Nada. “Molte oggi gestiscono organizzazioni per la pace o per i diritti umani in Israele e in Palestina.”
Gran parte dei partecipanti e dei membri dello staff sono donne. L’età è molto diversificata, tendenzialmente 40 o 50 anni, alcune persone arrivano direttamente dopo gli studi e altre addirittura mentre frequentano ancora università. E poi ci sono i più anziani.
Non è detto che chi si approccia a questo mondo sia davvero preparato a ciò che lo aspetta. “Quando arrivano le persone non sono davvero consapevoli, non è loro chiaro che questa sarà un’esperienza così scioccante, trasformativa. Sono incuriosite, magari vogliono solo fare qualcosa che le arricchisca. Capita che si presentino persone assolutamente impreparate a un’esperienza di questo tipo.”
E cosa accade in questi casi?
“Può succedere che abbandonino il corso dopo uno o due incontri, oppure che tengano duro, proseguano e attraversino l’intero processo. A dire la verità è molto rilevante anche per tutto il gruppo se qualcuno porta un pensiero e una prospettiva diversa, non convenzionale.”
Introdurre una persona nuova in un contesto del genere è senza dubbio la parte più delicata.
“Dobbiamo lavorare di più con le persone nuove per aprire il loro cuore, permettere loro di mettersi in ascolto, capire il contesto e riuscire a esprimere le emozioni e sviluppare empatia.” Spiega Nava Sonnenschein, che ci tiene a sottolineare come quella lasciata da questi luoghi sia un’eredità importante.
“Alcuni dei bambini cresciuti nelle nostre scuole bilingui e bi-nazionali quando hanno figli li mandano nelle stesse scuole e avanti così. Vedono i vantaggi dell’educazione che hanno ricevuto e la regalano ai loro figli.”
Il dialogo è necessario ma fatica a intrecciarsi con la politica
Luoghi come la Scuola per la Pace, così come la stessa Neve Shalom Wahat al-Salam, vedono il proprio ruolo farsi sempre più cruciale, soprattutto in periodi di dolore, violenza e frustrazione come quello attuale.
“In questo momento il nostro compito è dare alle persone un’occasione, uno spazio in cui parlare. C’è un grande silenzio là fuori. È come se in tempo di guerra si potesse ascoltare una sola voce, non c’è spazio per pluralismo né confronto. Ma bisogna incoraggiare le persone ad agire, supportarle nel creare un’alternativa concreta. Il rapporto tra israeliani e palestinesi non deve andare soltanto in un modo, può essere diverso e la nostra responsabilità è di rappresentare un’alternativa” riflette Silberberg.
“La sfida più grande è la realtà. Al momento la tendenza, anche imposta dalla autorità, è di vedere tutto bianco o nero”, prosegue Nava. “Le persone che esprimono tristezza per le morti dei civili a Gaza vengono additate come se supportassero Hamas, a volte addirittura licenziate dai luoghi di lavoro. Chi viene da noi invece, è in grado di riconoscere la complessità e la sofferenza in entrambe le parti, imparando a contenere l’altro nella propria identità. Questo è fondamentale, perché se vedi solo te stesso rischi di annegare nella sete di vendetta. Noi non vogliamo questo. Crediamo che la soluzione di questo lungo conflitto arriverà non con la forza, ma con la negoziazione della pace e la creazione di due Stati con buone relazioni”.
Purtroppo, sottolinea, nonostante la chiara influenza positiva sulle persone e sulle comunità, la Scuola per la Pace, così come lo stesso villaggio, non ha ancora scalfito la dura corazza della politica, sorda alle esigenze dei popoli di dialogare, capirsi, combattere l’odio.
“Se ti chiudi in te stesso finisci per sentirti peggio. Ma se parli con quello che consideri ‘nemico’ e ti rendi conto che non gioisce del tuo dolore, che prova empatia, è una consapevolezza molto forte. Credo sia qualcosa di molto importante a cui aggrapparsi, è una speranza per non farsi travolgere dall’onda dell’odio e dell’estremismo che ora ci circonda. Io spero che anche i leader verranno da noi per esercitare il dialogo e, un giorno, cambiare.”
Sara Del Dot, Giornalista