“Quando vedi qualcosa di brutto accadere a qualcuno che ti è vicino ma ti viene detto che puoi solo guardare, anzi, devi guardare perché non puoi scappare da nessuna parte, non puoi fuggire da queste immagini, è terribile. È tutto lì. E se spegnessi tutti gli schermi per non vedere, sentirei comunque gli aerei sopra di me. Siamo obbligati a guardare e a comportarci come se non vedessimo niente. È disumano.”
Samah Salaime usa l’espressione “try to survive”, “cercare di sopravvivere” per descrivere quella che dal 7 ottobre è diventata la sua vita di tutti i giorni. È responsabile della comunicazione e abitante di Neve Shalom Wahat al-Salam, la comunità internazionale di famiglie palestinesi ed ebree, tutte di cittadinanza israeliana, che vivono in pace, in un costante esercizio di dialogo, comprensione e rispetto reciproco.
Mentre
parla, gli aerei dell’aeronautica israeliana sorvolano la zona
diretti verso la Striscia di Gaza, lei si interrompe: “Li senti? Tra poco si
sentirà il colpo.”
Passano
praticamente
ogni cinque minuti.
Quando li sentono, gli
abitanti del villaggio aspettano il boato del bombardamento.
Che arriva
sempre.
È
la nuova quotidianità di chi abita nel perimetro di quello che ormai
da anni è il simbolo della convivenza possibile tra ebrei israeliani
e arabi palestinesi, in Israele, ad appena mezz’ora di distanza dal
confine con Gaza. Una quotidianità che oggi ha le bombe in
sottofondo e la polvere negli occhi, impregnata di paura e di tenace
resistenza alle divisioni che stanno lacerando non solo la loro
terra, ma il mondo intero.
“Di
base stiamo tutti a casa, per questioni di sicurezza i bambini
vengono portati a scuola dai genitori che poi li vanno a riprendere e
questo è un po’ complicato per le famiglie, infatti si presenta
circa il 70% degli studenti. Cerchiamo comunque di portare avanti
tante attività per permettere di elaborare emozioni, sentimenti e
promuovere il benessere”, racconta Salaime. “Per quanto riguarda
la comunità, portiamo avanti i gruppi di dialogo, fino ad ora ne
abbiamo fatti quattro. Devo dire che è davvero difficile per tutti
pensare, condividere, affidarsi all’altro. E diventa sempre più
complicato ogni giorno che passa, perché la guerra continua, i
cittadini ebrei sono ancora traumatizzati da ciò che è successo il
7 ottobre e i palestinesi soffrono per quanto accade a Gaza, dove
diversi di noi hanno amici e parenti.”
Neve
Shalom Wahat al-Salam in
mezzo alla tempesta
Neve
Shalom Wahat al-Salam. Un
nome metà in ebraico e metà in arabo, che in
entrambe le lingue
significa “Oasi di Pace”. Fondato nel 1972 dal padre dominicano
Bruno Hussar, rappresenta un concreto laboratorio di pace e
convivenza in cui decine di famiglie, metà palestinesi
e metà israeliane, sperimentano ed esercitano ogni giorno dialogo,
rispetto, incontro e pluralità.
Al suo interno è presente dal 2015, grazie a Gariwo, anche un Giardino dei Giusti che raccoglie le storie di chi ha dimostrato che si può fare una scelta diversa, che metta davanti l’essere umano. Oggi questa sfida, e quindi il ruolo di Neve Shalom Wahat al-Salam, è più evidente che mai.
“È
difficile condividere il dolore” racconta Samah Salaime. “La
buona notizia è che la gente continua a venire, a presentarsi.
Continuiamo a esserci l’uno per l’altro, a vivere insieme, a
voler comunicare, voler fare cose insieme, facciamo dichiarazioni e
riflessioni contro la guerra.”
Mantenere
e bilanciare il dialogo richiede un grande sforzo, soprattutto per
chi è nel villaggio da poco.
“Le
persone che sono qui da molto hanno una fiducia reciproca consolidata
e si sentono più sicure nella condivisione. Io sono qui da 23 anni e
mi fido dei miei vicini e compagni, per me sono come una sorta di
immunità,” spiega Salaime. “È molto più difficile per le
famiglie nuove o chi si è unito di recente alla comunità. Si
sentono meno a loro agio, preferiscono rimanere chiusi in se stessi e
si aspettano molto dagli altri. Sono quelli che hanno più bisogno di
essere abbracciati e protetti dal mondo esterno. Per questo abbiamo
impostato diversi livelli di dialogo, ad esempio una delle idee che
ci sono venute è stata creare un gruppo esclusivamente per le
persone nuove, che hanno una storia simile. Senza contare che per
molte è la prima guerra. Momenti come questi sono
una grande sfida per tutti noi, per restare fermi nelle nostre
convinzioni e nei nostri valori nonostante ciò che accade fuori”.
Come
spesso accade sono i più giovani, i bambini, a dare un esempio
importante.
“Credo che loro se la stiano cavando meglio di noi. Gli adulti pensano troppo e iper analizzano tutto, mentre i bambini nati e cresciuti qui sono abituati ad affrontare sentimenti molto forti, non hanno paura di esserne sopraffatti. Anzi, una delle idee emerse dall’ultimo dialogo è stata che fossero proprio i più giovani a facilitare questi incontri, al posto dei fondatori. Perché sono più stabili nelle loro connessioni.”
Le difficoltà dei palestinesi che vivono in Israele
Mentre
tutta l’attenzione è concentrata su Gaza, alcuni
palestinesi che vivono e lavorano nel territorio di Israele sono
divenuti oggetto di ritorsioni e diffidenza. La stessa Samah dice che se
indossasse il velo probabilmente verrebbe vista come un’araba
“sospetta”. A testimonianza dell’irrazionale polarizzazione che
si sta verificando lì come altrove.
“Sembra
la stagione della caccia ai Palestinesi” dice. “Mio figlio studia
a Haifa, e in questo momento si trova a casa come tutti gli altri
studenti perché per loro è pericoloso stare in giro dopo che a
Netanya centinaia di estremisti israeliani hanno attaccato gli
studenti arabi sotto i loro dormitori. Noi qui abbiamo aumentato la
sicurezza del villaggio con guardie volontarie durante la sera e le
notti. Nessuno è armato, ma ci sentiamo più sicuri nell’avere
qualcuno da chiamare se sentiamo qualcosa o vediamo qualcosa. Io mi
sento al sicuro, ma ricevo molte testimonianze da palestinesi che
hanno iniziato ad avere paura dei loro colleghi, sentono di essere
sempre sotto osservazione, in attesa che dicano o facciano qualcosa
di sbagliato, vengono messi alla prova con domande come “stai con
Hamas?”. Quindi, se ovunque dobbiamo stare
zitti, almeno qui nel villaggio possiamo dialogare.”
Una
narrazione confiscata
Secondo
Salaime,
la società israeliana sta vivendo un trauma fortissimo, ma fa
l’errore di appropriarsi completamente della narrazione di ciò che sta accadendo.
“C’è
sempre stato un approccio molto militare, basato sul potere e le
armi. E oggi la sensazione è che l’esercito e l’intero sistema
abbiano tradito i cittadini. Credo che uno degli errori più grandi
che sta facendo la società israeliana (che non è la società
ebraica) sia l’appropriazione della narrazione. Nell’attacco del
7 ottobre sono state uccise e rapite anche persone non israeliane.
C’erano 20 cittadini arabi, persone arrivate dalla Tailandia,
studenti dal Nepal, membri delle comunità beduine e richiedenti
asilo. Ma di questo non si parla mai. È stato un atto di violenza,
di terrorismo, un crimine contro l’umanità di cui ora stanno
pagando il prezzo i civili di Gaza, i bambini e non la gente di Hamas
che è al sicuro sotto terra. Quindi se viene richiesta la mia
solidarietà come palestinese, è necessario iniziare a considerare
l’immagine nella sua totalità, senza confiscarne la narrazione. In
quella stanza devo avere anche io uno spazio, con empatia e
solidarietà in quanto essere umano, in quanto donna, in quanto
femminista, in quanto madre.”
Fare spazio per tutti
Ed
è proprio sullo spazio, quello del suo cuore, che Salaime
sta facendo un grande esercizio. Per crearne di più e accogliere
tutti coloro che soffrono, per mettere accanto a quello del suo
popolo anche il dolore di chi sta aspettando che il figlio o il
genitore rapito venga rilasciato, vivo.
“Sono
stata a Gaza appena due mesi fa. Lì ho incontrato persone che
vogliono semplicemente vivere, essere libere, poter uscire. Ho
conosciuto persone molto colte che guadagnano 6-7 dollari al giorno,
un’intera generazione di giovani che non hanno idea di cosa sia la
democrazia, cosa sia la vita normale, avere una casa sicura, non aver
bisogno di essere evacuato una volta l’anno, non sentirsi sempre in
pericolo… Lì ogni cosa è collegata all’occupazione, dal cibo,
al carburante, all’elettricità, tutto. Israele dice di aver
lasciato Gaza anni fa, ma questa guerra ha reso evidente che non
l’hanno mai lasciata, l’hanno solo chiusa con tutte le persone
dentro per controllarla da remoto e decidere se fornire acqua,
alimenti, energia. La parte più complicata, la sfida più grossa
oggi è proprio mettere sul tavolo tutti questi elementi. Perché
tutti stanno soffrendo, e il trauma non ci permette di dialogare. Il
mio esercizio ora è di prosciugare il mio cuore per espanderlo e
avere spazio per tutti. Soffro sempre, ho tantissima paura per ciò
che sta accadendo a Gaza, ma devo fare spazio a empatia, solidarietà
e umanità per quanto accaduto alle vittime israeliane e anche agli
stranieri, i beduini e tutte le vittime di quel sabato.”
Una
delle cose per cui Salaime
soffre di più è non poter fare nulla per aiutare le persone in
difficoltà.
“Noi
attivisti per la pace siamo
paralizzati, non possiamo neanche mandare aiuti umanitari a Gaza,
cose basilari e
necessarie come i medicinali per curare le ferite. È
disumano. Almeno i miei colleghi ebrei possono dare una mano, possono
portare cibo, possono accedere agli hotel dove sono ospitate le
persone, gli artisti possono fare workshop con i bambini,
abbracciarli, e c’è anche un gruppo che sta aiutando gli animali
lasciati indietro nei kibbutz. Ma io non posso fare nulla per il mio
popolo. Non mi è permesso.”
Un
faro nel buio della guerra
E
in tutto questo, qual è il ruolo del villaggio Neve
Shalom Wahat al-Salam?
“Io
credo che siamo un barlume di speranza per tante persone.
Personalmente passo molto tempo con giornalisti da tutto il mondo,
inclusa l’Italia, perché mi rendo conto che hanno bisogno di noi.
Perché anche in questi giorni così bui, quando vedono cosa accade
qui capiscono che noi non ci arrendiamo e combattiamo per la pace e
non per la guerra...”
Un’isola reale,
concreta e necessaria, oggi più che mai, per offrire la certezza che
vivere in pace si può, perché è già stato fatto. A
testimoniarlo anche le storie celebrate nel Giardino dei Giusti
presente nel villaggio dal 2015 proprio grazie a Gariwo.
“Ci
sono tante persone che meritano di essere ricordate. E queste storie
di umanità, di chi ha fatto la cosa giusta, di chi si è messo in
prima linea per i propri valori, dovrebbero essere portate fuori,
raccontante ovunque. È una delle nostre regole, nel Giardino di
Gariwo. Le persone hanno
bisogno di speranza e penso sia veramente complicato dargliela oggi.
Ma questo villaggio non è una semplice iniziativa, non è un
esperimento. È qui, esiste. I genitori portano i loro bambini a
scuola, gli attivisti tornano, le famiglie presenziano alle
assemblee, sentiamo che dobbiamo valorizzare ciò che abbiamo. Pochi
giorni fa un’attivista per la pace mi ha detto che siamo come un
faro nella notte. Ecco, Neve
Shalom Wahat al-Salam
è questo.
Offre
una luce in questo mondo. E
la cosa più importante è che sappiamo come farlo. Dobbiamo solo
portarlo fuori, mostrarlo agli altri.”
E
alla domanda su cosa veda nel proprio futuro, risponde: “Penso che
diventeremo più grandi. Ma ogni progetto che portiamo avanti
dovrebbe essere grande il doppio per poter avere un impatto e
cambiare le cose intorno a noi. Dopo così tanti anni in conflitto le
persone devono capire che hanno bisogno di provare qualcos’altro,
qualcosa di diverso. Non possono ripetere la stessa cosa ancora e
ancora, avere a che fare solo con la violenza, qualcuno deve cambiare
questo percorso.”
Sara Del Dot, Giornalista