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Covid-19 a Milano: la solidarietà non conosce confini

Intervista a James Senghor, presidente di Africa1

Alcuni membri di Africa1 durante una riunione

Alcuni membri di Africa1 durante una riunione

Tra le tante associazioni lombarde che in questi giorni stanno lavorando assiduamente a fianco delle istituzioni per sostenere i cittadini alle prese con l’isolamento da Covid-19, ce n’è una decisamente fuori dalle righe. Si chiama Africa1, ma il nome non inganni: è composta da africani come da italiani, ritrovatisi insieme circa un anno fa quasi per caso, intorno a un episodio di “quotidiana” solidarietà. Il presidente e fondatore è James Senghor da Dakar, 33 anni di cui sei in Italia. Senghor lavora di notte per una grande catena di supermercati, mentre il giorno lo dedica al volontariato. La storia del Covid-19 (che del resto è la storia di tutti noi), si interseca con quella di Africa1, che a sua volta deve molto alle funamboliche vicende personali di Senghor, che per diverso tempo ha vissuto, in varie città italiane, da senzatetto. “Un giorno dovrò scriverci un libro”, mi dice mentre consegna medicinali a una famiglia in isolamento. In attesa della sua autobiografia, accetta di condividere qualche “scheggia” della sua storia (e di quella di Africa1) con i lettori di Gariwo.

Com’è nata l’idea di un’associazione di volontariato?

Quando sono arrivato in Italia non conoscevo nessuno. Dormivo per strada e faticavo a mettere insieme due pasti di fila. Oggi invece conduco una vita “normale”. Credo che il segreto della nascita di Africa1 sia proprio in questa dicotomia: so cosa provano e quali sono le necessità di chi vive per strada o di chi è appena arrivato e non ha punti di riferimento. Allo stesso tempo conosco le sfide di chi ha una vita apparentemente “normale”, o che semplicemente ha un lavoro. Così ho pensato di mettere questa duplice esperienza al servizio degli altri, per essere un punto di incontro. Davanti a noi ci sono grandi sfide, e credo che si possano affrontare solo essendo uniti e provando a metterci nei panni degli altri.

Chi sono i membri di Africa1?

Al momento il motore di tutte le nostre attività è un gruppo whatsapp costituito da oltre 170 persone: africani di ogni paese e italiani. Di questi, cento sono di Milano. Tutto è nato dall’urgenza di chi ha più bisogno e da una situazione specifica.

Quale?

Era periodo di ramadan. Notai che c’erano delle persone tra la Stazione Centrale e Parco Sempione che non avevano i soldi necessari per nutrirsi durante la rottura del digiuno. Ho deciso di mettere quello che avevo da parte, 300 euro, per comprare del cibo per loro. Ma non sarebbe stato sufficiente. Così ho chiamato altre sei persone e la quota a disposizione è aumentata. Un artista è venuto a conoscenza dell’iniziativa e ha deciso di fare una grande spesa, alla quale ha collaborato anche sua madre. Con il passaparola, tante persone hanno iniziato a donare quello che potevano: 5, 10 o 15 euro. Ecco come è nata Africa1!

Da lì c’è stato un impegno costante a lavorare sull’impianto culturale dell’associazione. Abbiamo fatto un grande evento inaugurale e una serie di dibattiti per capire cosa fosse davvero per noi l’integrazione, intesa come un processo che deve riguardare tutti.

Cosa succede dentro il vostro gruppo?

Il gruppo whatsapp è il motore dell’associazione. Qui alcune persone hanno trovato lavoro, poi c’è chi impara l’italiano e chi aiuta i nuovi arrivati a comprendere come funziona la legge italiana. Un ruolo importante è quello degli afro-discendenti, che sono nati e cresciuti qui ma al contempo possono facilmente comprendere le esigenze di chi è appena arrivato.

Il coronavirus ha stravolto le attività di tutte le organizzazioni attive sul territorio. A cosa stavate lavorando prima dell’emergenza?

Il coronavirus ci ha colti in un momento molto particolare. Nel nostro gruppo c’erano grandi riflessioni su come la politica estera francese – e il franco CFA – non contribuisse effettivamente a una indipendenza sostanziale dell’Africa occidentale. Stavamo organizzando un grande convegno su questo tema, ero anche andato a ritirare i volantini. Avremmo voluto parlarne durante il 4 aprile, giorno in cui in Senegal si celebra la festa d’indipendenza. È andata diversamente.

Da quello che dici sembra evidente che Africa1 abbia due “anime”: un’elaborazione teorica su grandi tematiche politiche e filosofiche e una solidarietà concreta, tangibile. Come siete finiti a occuparvi di assistenza a persone colpite da Covid-19?

La nostra filosofia è molto semplice. Gran parte dei membri dell’associazione non ha molti soldi, eppure siamo tutti mossi da ideali solidali. Nonostante tutto, per noi l’Italia rimane la nazione che salva vite nel Mediterraneo. Ora è affranta dalla piaga Covid-19. Ma questo è anche il luogo dove abbiamo deciso di costruire un percorso condiviso: è dove stanno crescendo i nostri figli, dove abbiamo deciso di mettere nuove radici. Ci è sembrato il minimo metterci a disposizione del Comune di Milano. Ma c’è un concetto imprescindibile nel nostro operato: esiste una sola razza, quella umana. Dipendesse da me, eliminerei la nazionalità dalle specifiche che caratterizzano un essere umano. Spero che tutti, alla fine di questa emergenza, comprendano queste parole.

Perché avete scelto il nome Africa1?

Perché vogliamo un’Africa unita. Eppure non è un’associazione solo africana. È aperta anche ai non africani, perché crediamo che da un’Africa unita si possa arrivare a un mondo unito. Ci interessa essere portatori di questo approccio culturale.

Dove sbaglia l’Italia in termini di accoglienza?

Si sottovalutano i bisogni primari dei cosiddetti migranti economici, quelle persone che non fuggono da nazioni in guerra ma che arrivano in Italia con bisogni estremi. Magari non arrivano nemmeno con i barconi, sono invisibili.

Che mondo sogni per tuo figlio, che nascerà tra pochi giorni?

Un mondo senza razze, in cui esaltare le diversità diventi la normalità.

Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo

15 aprile 2020

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