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​“I giovani della Siria devono poter studiare”

intervista a Elena Isayev

Elena Isayev ha effettuato scavi per molti anni in Italia, dimostrando che alcuni vetri che usavano i romani erano siriani, che normalmente il 30% delle genti in ogni comunità viene da fuori e che il concetto di cittadinanza è cambiato moltissime volte nel tempo. Ha appena scritto un libro, Migration, mobility and place, che sostiene due cose: che c’è, fin dall’antichità, una tendenza primordiale a migrare e che questo aspetto dell’essere umano, il suo trovarsi “sempre in movimento”, è oggetto, per esempio nel linguaggio politico, di alcune finzioni, che nel libro vengono esposte e spiegate criticamente.

Ci parla del suo libro in uscita e delle sue ricerche sull’Italia? Secondo i suoi studi l’identità di un Paese come l’Italia si basa su criteri etnici o politici?

Il libro fa il punto su due aspetti. Il primo è che la mobilità nel mondo antico era molto elevata e che c’è una tendenza primordiale a migrare, il che è stato fatto oggetto di alcune negazioni e finzioni, che ho documentato e criticato. Un dato sull’Italia, dagli scavi in Etruria, è che circa il 30% delle persone di ogni comunità analizzata proveniva da fuori. Nel mondo romano non c’era un’identità italiana, c’era un tentativo di affermarne una ma poi quello che accadde è che Roma vinse una guerra che si chiamava “guerra sociale”, e fu creata l’identità romana e non quella italiana. La cittadinanza non è territoriale, e potrebbe estendersi ad alcune persone e comunità al di là di Roma e dell'Italia. Ma in termini di dove le persone sentono di appartenere, le comunità, bisogna ricordare che l’impero romano diede la cittadinanza a centinaia di migliaia se non milioni di persone nell’arco di una notte.

Ci spiega l’origine dell’idea di “migrazione” e le connotazioni che ha nel linguaggio di tutti i giorni? Ce ne sono alcune particolarmente negative che riconducono alla xenofobia?

La parola migrazione viene spesso intesa come uno “spostarsi per sempre”. È molto antica, ma l’uso che ne facciamo è contemporaneo. Di solito per “migrazione” intendiamo qualcuno che si muove da un luogo all’altro e poi resta lì per sempre. Nel passato, 1500 anni fa, i movimenti delle persone erano senz’altro da una città a un’altra o da una regione all’altra, ma avvenivano in modo molto diverso da quanto avviene oggi: non c’erano frontiere, né passaporti… Io non parlo dei movimenti di eserciti o di militari. Le migrazioni come le comprendiamo noi oggi sono viste secondo la mentalità che si è creata nel XIX secolo in America: ci si chiedeva da dove venissero i migranti e in qualche maniera ci si domandava se dagli arrivi sarebbe conseguito un sovraffollamento, e si è creata la paura che arrivino troppe persone.

Per quanto riguarda la xenofobia in Italia antica, ci sono due cose da dire: prima di tutto molte persone pensano che l’etnicità e l’origine siano legate a una città, con il sangue e il suolo legati in un certo modo. Il problema quindi è come fare il modo che la gente non entri in un luogo oppure che non ne esca. Cercare di tenere la gente connessa a un territorio e a un’etnicità è qualcosa, come un confine, che viene creato artificialmente dal potere, dalla cultura e da altri aspetti delle nostre società. Oggi noi assumiamo che la connessione al suolo sia l’etnicità, mentre una delle poche cose che si sanno sicuramente è che gli umani sono connessi alle loro famiglie. In molte epoche e culture, il modo di concepire se stessi e la propria comunità era diverso. Ci si sentiva connessi con una cultura per esempio. Questo risulta proprio dai reperti che troviamo per esempio in Etruria.

Lei sostiene che in istituzioni come quelle dell’impero romano la mobilità era all’ordine del giorno dal punto di vista degli spostamenti nello spazio, mentre il dibattito era solo sulla cittadinanza. Ci vuole parlare di questa importante differenza?

Nella nostra cultura la cittadinanza è connessa al territorio e alla terra. La differenza di cui parliamo invece è particolarmente evidente nell’Impero Romano. L’ingresso in differenti territori era qualcosa di molto diverso dalla cittadinanza. La cittadinanza non rappresentava affatto una connessione con il territorio. Fu solo con il Trattato di Westfalia nel 1648 che sanciva il principio cuius regio, eius religio che una tale connessione fu stabilita e nacque lo Stato nazione con un concetto di cittadinanza vicino al nostro. La gente non aveva problemi con gli spostamenti delle persone.

Come si può definire oggi la cittadinanza? Che cosa può accadere oggi se si ampliano i criteri della cittadinanza o al contrario se si accettano gli immigrati stando però “attenti" a che non mutino il loro status sociale e legale?

Un primo passo per una migliore integrazione secondo me è il rafforzamento dell’appartenenza all’Europa, oggi in discussione. Noi dovremmo affrontare la paura verso l’immigrazione nata nell’America del XIX secolo e decidere che è completamente politicizzata. Da un lato la cittadinanza è un fatto di identità e di confini, ma dall’altro è fatta di doveri, lealtà. Bisogna investire su questo, sul numero di persone che è connesso a un’identità europea oggi. Questo è un aspetto, ma riguarda la politica. Sul caso dei migranti “non integrati” o “trattati come persone di serie B” bisogna valorizzare le situazioni nelle quali gli stranieri contribuiscono, acquistano i beni e i servizi, e sostengono pienamente la società. Mi sembra che invece stiamo creando persone arrabbiate che vivono tra di noi.

Chi arriva oggi dalla Siria in che rapporto è con noi? L’archeologia, la storia e la cultura suggeriscono l’esistenza di una civiltà comune?

L’archeologia ci dice che le popolazioni del Medio Oriente o del Nord Africa erano crogioli di culture. La Siria in particolare era un centro culturale e commerciale importantissimo dell’Impero Romano e da lì viene un vetro che per esempio è molto comune negli scavi italiani. Abbiamo una storia di un principe siriaco che abitava in una zona dello Stato di Roma ed era amico del famoso storico Polibio.

Che cosa si potrebbe fare per la pace in Siria e perché non accadano più orrori come l’assassinio di Khaled Asaad?

Questa uccisione ha scioccato la comunità archeologica profondamente. Io non ho soluzioni politiche, ma posso dire che un problema è che una parte dei siriani oggi cresce conoscendo solo la guerra, senza accesso all’educazione, in altre parole sopravvivendo e basta. Come faranno queste persone a comprendere il valore del patrimonio culturale, come farà questa generazione, che è parte della nostra società e della nostra anima, a crescere con dignità? Bisogna lavorare per garantire loro l’educazione, per renderli capaci di fare la differenza, coltivando il valore della società universale. 

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