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Il giornale simbolo della lotta contro Putin è già rinato a Riga

Intervista a Kirill Martynov

La prima vittima della guerra, diceva Eschilo, è la verità. Anche perché in guerra le testate libere e indipendenti vengono di solito costrette a chiudere. Un destino che alcuni mesi fa è toccato anche alla Novaya Gazeta, il più importante organo di informazione indipendente russo, il quotidiano di due premi Nobel per la pace: Dmitrij Muratov che lo dirigeva e Mikhail Gorbaciov che l’aveva finanziato fin dagli albori, nel 1993. Novaya Gazeta era stato il giornale di Anna Politkovskaja, che fu uccisa in un agguato a Mosca nel 2006, e di altri sei giornalisti assassinati negli anni seguenti per aver detto la verità. Un mese dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina il Roskomnadzor, l’agenzia statale delle comunicazioni russa, ha messo a tacere l’ultima voce libera del Paese e poi un tribunale di Mosca gli ha revocato la licenza di stampa. Ma nel frattempo il giornale simbolo della lotta contro Putin era già rinato a Riga, in Lettonia, dove si sono rifugiati centinaia di giornalisti russi invisi al regime. Uno di essi è il 41enne Kirill Martynov, che ha lasciato il suo Paese una settimana dopo l’attacco all’Ucraina. È lui a dirigere la Novaya Gazeta Europe, la nuova versione del quotidiano che da alcuni mesi ha una redazione nel centro della capitale lettone, dove l’abbiamo incontrato.

Con quale spirito avete riaperto?

La nostra linea editoriale è rimasta la stessa, non abbiamo mai smesso e mai smetteremo di denunciare i crimini di Putin e gli orrori di questa guerra. In totale siamo una sessantina di persone, compresi tecnici e personale amministrativo. Gran parte di noi si è rifugiato in Lettonia, altri sono in Polonia, in Germania e in Kazakhstan. Tre o quattro giornalisti sono rimasti in Russia ma lavorano sotto copertura, con un nome falso. Siamo operativi a pieno ritmo con notizie sia in russo che in inglese sul nostro sito novayagazeta.eu e sui nostri canali Telegram, Twitter e Instagram. Abbiamo già stampato alcune copie cartacee per testare il mercato e stiamo lavorando a un piano di crescita.

Perché avete scelto di riaprire proprio in Lettonia?

Perché è geograficamente vicina alla Russia e abbiamo un ottimo rapporto con le autorità locali, che fin da subito sono state molto interessate al nostro lavoro e ci hanno sostenuto. Non è detto che rimarremo sempre qui ma per ora è senza dubbio la soluzione migliore. Abbiamo ricevuto un enorme sostegno anche da parte dei colleghi giornalisti, sia in Lettonia che in altri paesi europei.

I soldi del Nobel per la pace 2021 vi hanno aiutato?

No, perché non erano molti. Innanzitutto il premio è stato diviso a metà con l’altra vincitrice (la giornalista filippina Maria Ressa, ndr), poi Muratov ha destinato gran parte dei soldi che ha ricevuto in beneficenza e al premio giornalistico dedicato ad Anna Politkovskaya. Il rimanente, ovvero qualche migliaio di euro, è stato suddiviso tra noi giornalisti. Io ho avuto 150 euro con i quali mi sono comprato un paio di airpods, visto che avevo appena perso le cuffie per lo smartphone.

Anche se ancora non siete presenti stabilmente in edicola, su internet avete un pubblico molto numeroso.

Nelle prime settimane di guerra, quando lavoravamo ancora in Russia, abbiamo avuto picchi di quattro milioni di visitatori al giorno. Lo stesso abbiamo registrato a settembre, dopo l’annuncio della mobilitazione parziale delle truppe decisa da Putin ma possiamo contare su un flusso enorme e costante di visitatori. Credo sia un dato significativo soprattutto perché dimostra che milioni di russi hanno dei dubbi su quanto sta succedendo, e sono alla ricerca di informazioni.

Quanto sono informati i russi su quello che sta accadendo in Ucraina?

Penso che la maggioranza delle persone sia in un certo senso costretta a credere alla propaganda del regime. La nostra società era già molto atomizzata e priva di vere istituzioni. La Russia è anche un paese molto grande con enormi differenze al suo interno. La situazione a Mosca è assai diversa da quella di tante regioni povere nel centro del Paese, o sugli Urali o nel Caucaso del Nord. Ma in generale possiamo dire che gran parte della popolazione non voleva questa guerra, non l’ha mai voluta ma sa di non poter decidere niente, perché Putin tiene il Paese sotto stretto controllo. In ogni caso, chi ha la possibilità di farlo manda i propri parenti all’estero per sfuggire alla leva.

Non si registrano più le proteste di piazza che avevano luogo nei primi mesi di guerra. La repressione le ha soffocate tutte?

In Russia abbiamo avuto un sacco di proteste anche prima dell’invasione dell’Ucraina. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza a Mosca, ad esempio, quando è stato incarcerato il nostro collega Ivan Golunov. Dalla fine di febbraio la situazione si è fatta ancora più difficile. Penso che il modo migliore per comprendere la situazione della Russia di oggi sia paragonarla a quanto accadeva in Germania e in Italia al tempo di Hitler e Mussolini. In ogni caso non credo che le cose potranno cambiare in seguito a una rivolta popolare. Penso che prima o poi il potere statale russo sarà costretto ad affrontare una serie di gravi problemi strutturali come i conflitti etnici, la povertà, i problemi dell’ambiente e i conflitti tra le singole regioni del Paese. Penso che per l’ennesima volta nella sua storia la Russia stia attraversando un enorme disastro sociale, politico ed economico.

La Lettonia è l’unico stato baltico che confina con la Russia e con la Bielorussia. I lettoni temono di poter essere invasi?

Sì, hanno molta paura perché sanno bene cosa significhi vivere sotto occupazione. Ne hanno vissuta una, terribile e di lunga durata sulla loro pelle, non molto tempo fa. Neanche l’appartenenza alla Nato li fa sentire totalmente sicuri, perché l’Alleanza atlantica non è in grado di controllare ogni singolo confine con la Russia e il governo lettone sa che se Putin dovesse decidere un’invasione su larga scala neanche la Nato potrebbe difendere la Lettonia nel breve periodo. Dall’altro lato, però, noto con dispiacere che a prosperare siano le idee populiste, secondo le quali il modo migliore di avere a che fare con la Russia dopo la guerra sarà quello di erigere un muro e vivere separati.

Quindi non riesce a essere fiducioso nel futuro?

No, perché temo che il peggio debba ancora arrivare. Putin si aggrappa alla sua posizione di potere e ricatta l’Europa con il gas sfruttando la debolezza dell’UE, il cui primo segnale forte è stato la Brexit. La mia unica speranza è che l’Europa riesca prima o poi a fare a meno delle nostre materie prime. Soltanto quando le economie europee cesseranno di essere dipendenti dal gas russo sarà finalmente possibile impedire a Putin di continuare a dettare le condizioni.

Riccardo Michelucci, giornalista

10 novembre 2022

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