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Jafar Panahi e il cinema iraniano che resiste

Intervista a Claudio Zito di Chiara Zanini, critica

La scorsa settimana su Gariwo abbiamo raccontato il coraggio di sportivi come Sardar Azmoun, calciatore della Nazionale iraniana, che ha difeso le proteste in corso in almeno ottanta città a seguito della morte di Mahsa Amini, una ventiduenne curda arrestata a Teheran 13 settembre dalla cosiddetta polizia morale per non avere indossato l’hijab nel modo previsto dalla legge. Il decesso della giovane era avvenuto a tre giorni dal suo arresto, dopo che era entrata in coma. Da allora oltre cento morti e più di 1200 arresti sono il bilancio parziale di un nuovo ciclo di proteste di massa, che si aggiungono a quelle che hanno caratterizzato il paese negli ultimi anni. Ma questa volta sembrano coinvolgere tutte le classi sociali, compresa quella media, e ne sono protagonisti anche studenti e docenti. Sono proteste femministe, avvertite però da tutti coloro che desiderano ribellarsi alla repressione quotidiana da parte dello stato.

Parliamo oggi invece degli artisti, perché anche loro sono estremamente attenzionati dal regime. Lo facciamo con il critico Claudio Zito, fondatore del blog Cinema iraniano e di un volume dedicato al regista Jafar Panahi, Visioni di contrabbando, edito da Digressioni.

Come hai deciso di creare un blog dedicato solo al cinema di registi iraniani?

L’idea è nata perché mi sarebbe piaciuto leggere un blog dedicato a quella che è sempre stata la mia cinematografia preferita, ma non c’era. Allora ho deciso di aprirlo io.

Alcuni tra i registi più apprezzati da pubblico e critica sono osteggiati dal regime, molti vivono all’estero.

Sì, molti tra i Maestri vivono all’estero. Ad esempio Amir Naderi, Bahram Beizai, Bahman Ghobadi, e Samira, Mohsen e gli altri membri della famiglia Makhmalbaf. Altri sono in Iran e non possono lavorare liberamente né uscire dal paese, come Mohammad Rasoulof e Jafar Panahi, che è in carcere.

La censura assume diverse forme e viene da lontano. L'ayatollah Ruḥollāh Khomeynī, guida suprema dell'Iran dal 1979 al 1989, fece distruggere oltre 2000 film. Di cosa parlavano quei film? Qual è il rapporto tra cinema e propaganda?

La censura inizia ancora prima della nascita vera e propria del cinema iraniano, sotto la dinastia Qajar, quando vigono limitazioni alla proiezione dei film stranieri. Continua con la dinastia Pahlavi (1925 - 1979), piuttosto rigida, e per motivi non così diversi da quella odierna, come l’oltraggio alla religione. Con l’instaurazione della Repubblica Islamica dell’Iran (1979) la situazione peggiora. I film che vengono distrutti, tagliati, o modificati con un ‘magic marker’ sono soprattutto quelli disinibiti sul piano dei costumi, appartenenti al genere ‘filmfarsi’, il cinema popolare dei tempi dello scià, che mischia commedia, melodramma e canti e balli di donne inquadrate con sguardo lascivo (prima del ‘79 i registi sono tutti maschi, con rarissime eccezioni). Sono film simili a quelli di Bollywood [il cinema commerciale prodotto a Mumbai, in India], per intenderci. Il regime, invece, da un lato vuole “supervisionare” (ossia censurare) il cinema, dall’altro vuole usarlo come strumento di propaganda, perché sa che è fondamentale per consolidare il potere e chiamare il paese a raccolta contro l’invasore iracheno, che attacca l’Iran poco dopo la rivoluzione [la guerra Iran-Iraq dura dal 1980 al 1988 e coinvolge anche le potenze straniere].

Molti film vengono tuttora censurati dal regime, perciò per vederli così come sono stati concepiti si ricorre alla pirateria. Molte sale cinematografiche sono infatti di proprietà dello stato o controllate. Cosa viene censurato più frequentemente, come agisce la censura?

La censura agisce in primis - e direi in modo più subdolo – nella testa degli autori, che si autolimitano anche inconsciamente. Dopodiché il Ministero preposto deve dare il benestare a ogni fase della produzione del film, dalla sceneggiatura, al cast, al girato. Prima dell’utilizzo del digitale era imprescindibile chiedere allo stato anche le attrezzature, ora invece c’è la possibilità di girare film in molti modi diversi, ma sempre con il rischio di porsi al di fuori dell’industria ufficiale e dunque di non poter guadagnare con il proprio lavoro. Un equivoco in cui noi stranieri cadiamo spesso è pensare che i film indipendenti, quelli dell’epoca dello scià e i film esteri non vengano visti in Iran. In realtà ci sono sempre stati tanti modi per aggirare i blocchi, già con le videocassette, poi col satellite, con i dvd pirata e ora anche Internet utilizzando una rete VPN.

A Teheran si tiene ogni anno il festival Fajr, che un tempo era molto seguito, mentre negli ultimi anni è diventato sempre più un’emanazione del regime. Nel 2018 il Fajr ha ospitato anche un omaggio al cinema italiano e diversi cineasti italiani sono quindi andati ad accompagnare i propri film, probabilmente senza conoscere i retroscena dell’evento, che sono stati resi noti successivamente da una lettera firmata da oltre duecento professionisti del settore, il cui intento era svelare i tagli censori ai film, l’abitudine a proiettare film che sono in sostanza opere di propaganda, la negazione della libertà di espressione e così via. Insomma, tutto il contrario di ciò che un festival dovrebbe essere.

Il Fajr nasce come strumento di propaganda negli anni ottanta e si apre poi all’estero con la presidenza Khatami [1997 - 2015], che inaugura una sezione internazionale, all’interno di un tentativo complessivo di ampliare la libertà di espressione. Purtroppo quel tentativo è fallito e ce ne stiamo drammaticamente accorgendo, in questi giorni più che mai.

Torniamo al problema di scarsa consapevolezza con cui gli artisti europei vanno al Fajr. Ad esempio nel 2020 i registi teatrali Eugenio Barba e Romeo Castellucci hanno ricevuto da alcuni colleghi iraniani la richiesta di rifiutare l’invito, in quanto andarci in quel momento significava non condannare i recenti arresti, le sparizioni e le violenze che si verificano nelle proteste di piazza. Organizzare eventi culturali è un modo per far passare l’idea la situazione nel paese sia stabile, ma come leggiamo in quell’appello «invitare artisti occidentali serve solo per mettere un velo che copra i massacri. Il Fajr Theatre and Film Festival non ha alcun legame con il popolo iraniano ed è uno dei festeggiamenti per ingannare gli occidentali».

Non so se sia giusto dare un’interpretazione delle scelte e delle prese di posizione degli artisti iraniani come di quelli internazionali che decidono di andare al Fajr. Ognuno può avere le proprie ragioni ed è giusto che le esprima direttamente. Credo però che le controversie degli ultimi anni riflettano l’instabilità crescente del paese e l’incapacità del regime degli ayatollah di governare i cambiamenti della società seguendo il passo della sua evoluzione. Anche molti analisti non si sono accorti che il sistema stava scricchiolando, ma quando si verificano rivolte con cadenza pressoché annuale, sempre più vaste, per giunta all’interno di un sistema autoritario che le reprime, vuol dire che la società vecchia è gravida di una nuova, per citare Marx. Rispetto al Fajr credo che nonostante le censure e le autolimitazioni i film nazionali dicano più cose sull’Iran e lo facciano paradossalmente con un grado di autenticità maggiore rispetto ai film sull’Iran realizzati all’estero. Non che debba necessariamente essere così – anzi il recente Holy Spider diretto da Ali Abbasi è un raro caso di film credibile (per quanto controverso) sul paese girato all’estero senza censure -, ma rilevo che finora all’estero sono state realizzate quasi solo opere ad uso e consumo della facile indignazione del pubblico occidentale.

Per una guida ai film ma anche all’Iran in generale, oltre ai miei canali social consiglio le dirette di Antonello Sacchetti (www.diruz.it e sui social), la casa editrice Ponte33, festival come il Middle East NOW di Firenze, i film su My Movies e la piattaforma Imvbox, dove tantissimi film si possono vedere coi sottotitoli in inglese oppure in italiano con la traduzione automatica. 

Aggiungo che la settimana scorsa è stato consegnato per la prima volta un premio voluto dalla Società italiana delle Storiche che va in questa direzione, dedicato alla memoria di Anna Vanzan, studiosa dell’Iran e dell’area Mena e traduttrice, scomparsa nel 2020. Quali sono i generi di film che hanno più successo? Cosa amano vedere gli iraniani al cinema?

Anche in Iran vanno per la maggiore le commediacce, come da noi in cinepanettoni e le loro evoluzioni o involuzioni recenti. E tra l’altro il regista di maggior successo di sempre, Masoud Dehnamaki, è letteralmente uno squadrista, nonché un intellettuale ultrareazionario. Tuttavia, anche il due volte premio Oscar Asghar Farhadi ha firmato alcuni dei maggiori trionfi al botteghino, riuscendo a conciliare l’alta qualità del suo cinema con un grande riscontro di pubblico, come non succedeva ai tempi di Abbas Kiarostami che, escludendo i suoi primi film, è stato un autore di nicchia.

Un’altra conseguenza forse poco nota al grande pubblico è che, anche una volta rifugiati all’estero, i registi faticano a ottenere i documenti necessari per spostarsi, anche tra paesi europei, dove i loro film vengono spesso premiati. E dal momento che essere presenti in questo lavoro è fondamentale, pagano il fatto di aver migrato, perdendo occasioni di lavoro. Un esempio è Asghar Farhadi, che non poté ritirare l’Oscar per Il cliente perché Trump impose un travel ban.

La vita degli iraniani all’estero - anche cineasti, figuriamoci le persone non famose - è complicata, si potrebbero fare diversi esempi. Negli Stati Uniti, dopo l’11 settembre 2001 Kiarostami non poteva partecipare ai festival, Panahi fu addirittura arrestato in aeroporto durante uno scalo. La famiglia Makhmalbaf ha problemi in Inghilterra: Mohsen a quanto pare paga ancora l’aver fatto la lotta armata cinquant’anni fa contro un regime morto e sepolto come quello dello scià, mentre Samira sconta le “normali” limitazioni dei rifugiati nella Fortezza Europa.

In patria inoltre succede che venga chiesto un pentimento a favore di pubblico televisivo, come una punizione esemplare che faccia intendere quali comportamenti non sono ammessi. Ma per tornare al mondo dell’arte, un altro ostacolo per gli artisti in Iran sono le sanzioni.

Le sanzioni, implementate anche dall’Unione Europea e non solo dagli Stati Uniti, sono micidiali e non servono a nulla, se non a punire il popolo. Questo non lo dico solo io: lo dice la Storia, e lo dice anche una petizione contro le sanzioni promossa nel 2018 da registi importanti come Rakhashan Banietemad, Asghar Farhadi e tanti altri. Le restrizioni alle importazioni complicano l’approvvigionamento di prodotti tecnologici e fanno schizzare l’inflazione, mentre quelle all’export limitano la circolazione dei prodotti e quindi riducono gli introiti. Questo vale per tutte le industrie, compresa quella cinematografica.

Hai scritto un libro su Jafar Panahi, il regista più perseguitato di sempre. Anche se ti sei concentrato sulla sua filmografia e non su questo aspetto, le due cose sono strettamente collegate. Quali sono i temi che ricorrono nei suoi film?

Alla vicenda giudiziaria ho dedicato un capitolo intero, ma tutta la filmografia dell’autore, a partire dal suo terzo film, “ Il cerchio”, è influenzata dalle vicissitudini personali. Panahi paga l’aver scelto un cinema sociale e l’intransigenza nel rifiutare l’autocensura, infine l’adesione al Movimento Verde. Il suo cinema racconta la condizione delle donne iraniane, le diseguaglianze sociali, la mancanza di libertà degli artisti. Ma è anche un’arte che indaga il confine tra realtà e finzione e le potenzialità del cinema come mezzo, rinnovando una tradizione caratteristica della cinematografia nazionale.

Un film come Offside - girato prima della sua condanna che lo costrinse al carcere e a non fare film, rilasciare interviste e uscire dal paese – è un ottimo esempio dell’intelligenza e delle capacità di adattamento dei migliori cineasti iraniani: realizzato senza autorizzazioni e in tempo reale rispetto a un partita della nazionale di calcio, affronta con tante idee e leggerezza stilistica un tema delicato e sentito come il divieto alle donne di entrare allo stadio.

Oggi i festival permettono alle produzioni cinematografiche di candidare i propri film via web, ma in Iran si è spesso costretti a lavorare senza internet, perché viene bloccato.

Panahi [nel 2011] esportò il suo primo film clandestino, This Is not a Film, con una chiavetta USB inserita in una torta! Quella di aggirare i blocchi è una sfida quotidiana dei cineasti indipendenti. E anche degli spettatori.

Un altro caso piuttosto noto è quello di Keywan Karimi, regista di origine curda che per il documentario Writing on the City del 2015 era stato condannato a sei anni di carcere e 223 frustate per "offesa alla sacralità islamica", scontando poi circa un anno. Il suo film non faceva altro che raccontare cosa si legge sui muri di Teheran: scritte che il regime non riesce a cancellare, ma che attraverso il film rischiavano di essere viste in tutto il mondo.

La vicenda di Karimi mi ricorda quella di Bahman Ghobadi: entrambi curdi e a entrambi è stato fatale un film su Teheran: “Writing on the City” per Karimi , “I gatti persiani” per Ghobadi. L’Iran è un paese multietnico, che accoglie milioni di rifugiati. Ci sono frizioni con alcune minoranze, la questione curda è avvertita anche qui, seppur non abbia avuto i risvolti che ha avuto in Turchia e in Iraq. Ma si verificano anche vere e proprie persecuzioni, come per la minoranza religiosa dei Bahai. E poi c’è la grande capitale Teheran, dove convergono con forza centripeta tutte le contraddizioni.

Quali sono i film che consiglieresti, anche al di là del merito artistico, per conoscere meglio il paese?

I film di Asghar Farhadi. Sono talmente stratificati che hanno tantissimo da insegnare.

La pagina Facebook legata al tuo blog viene chiamata affettuosamente l’Ansa del cinema iraniano. Come raccogli le informazioni, dal momento che l’Iran è quasi sempre invisibile sui nostri media, se non per questioni geopolitiche oppure quando, come in queste settimane, diventa impossibile nascondere le violazioni dei diritti umani?

Cerco nei motori di ricerca, seguo gli artisti iraniani su Instagram (uno dei social più utilizzati, ma non in questi giorni perché quasi tutto è bloccato) e mi faccio aiutare da cittadini iraniani quando la traduzione automatica dal persiano non è comprensibile oppure ho dei dubbi.

Che cosa possiamo imparare dal cinema iraniano?

La capacità di superare gli ostacoli con creatività e perseveranza. Ma anche la possibilità di fare grande cinema senza solleticare i bassi istinti dello spettatore.

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Il nuovo film di Jafar Panahi Gli orsi non esistono uscirà in Italia giovedì 6 ottobre. Lo stesso giorno al cinema Sacher di Roma si terrà una serata dedicata al regista, introdotta dalla giornalista di Internazionale Francesca Gnetti e da Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. I distributori Janus Films e Sideshow hanno acquisito i diritti dell’opera e intendono organizzare un’uscita nelle sale statunitensi per programmare una campagna per la candidatura alla miglior regia in occasione dei prossimi premi Oscar, affinché l’Oscar possa premiare Panahi e i registi che come lui lottano per la libertà di espressione.

Chiara Zanini, critica

5 ottobre 2022

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