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La Memoria come opportunità

intervista alla storica Anna Foa

Riprendiamo di seguito l'intervista ad Anna Foa uscita in occasione del Giorno della Memoria sul settimanale Azione. La storica lancia un appello ai colleghi israeliani: tocca a voi prendere la palla, mandate un messaggio di libertà agli intellettuali europei.

Alla vigilia del 27 gennaio si percepisce una sorta di stanchezza della memoria. Come trovare una chiave per cambiare le caratteristiche di una liturgia che rischia di esaurire il suo messaggio?
Innanzitutto inserirei più storia e meno memoria. Più storia, perché non se ne fa abbastanza, e meno memoria, perché quest’ultima sta diventando troppo fumosa. Dobbiamo raccontare i fatti, ancora troppo ignorati, ricostruire vite cancellate, anche narrandole sotto forma di storie, soprattutto quando si parla ai più giovani.

Ma più di tutto dobbiamo trasmettere il messaggio che non si tratta di una storia a sé, bensì che la storia ebraica, anche quella relativa al capitolo della Shoah, fa parte della grande storia e come tale appartiene a tutti. Di conseguenza anche la memoria non è esclusivamente ebraica, anzi, serve soprattutto ai non ebrei. Non a caso la Giornata della memoria è l’unica commemorazione civile comune a tutti i paesi dell’Unione Europea. Prende spunto dalla Shoah, ma per affermare che un evento simile non deve mai più ripetersi e che l’Europa deve fondarsi sul rifiuto di razzismo e antisemitismo, sull’accoglienza, sulla libertà. Che questi sono i nostri valori.

D’altra parte quest’accezione più universalistica della Shoah sembra non star bene a tanta gente e gli ebrei sono i primi a reclamare la particolarità e la specificità della storia ebraica.
Io sono impressionata dalla veemenza con cui viene recepita questa questione, che ho affrontato come storica. Ebrei, per il resto progressisti e aperti al mondo, che gridano di voler difendere fino alla morte l’«unicità» della Shoah. Ma perché devi difendere fino alla morte un criterio storiografico? Semmai discutilo!

Pare di essere tornati indietro di un secolo, quando la storia del «popolo eletto» sembrava richiedere criteri interpretativi differenti da quella degli altri! Credo si tratti di un modo di riprendersi la Shoah da parte degli ebrei, soprattutto italiani. Non deve essere un criterio interpretativo del mondo, né un monito per quest’ultimo, ma solo una vicenda ebraica. È come se più o meno consapevolmente gli ebrei dicessero: rendendola universale ci state scippando la Shoah. Ed ecco di nuovo il contrasto tra la vecchia anima universalistica e quella particolaristica che emerge pericolosamente.

Se parliamo di universalismo non posso fare a meno di pensare al ruolo degli intellettuali, e in particolare a tuo padre Vittorio, politico, sindacalista, giornalista, storico e saggista. Perché siamo orfani di personalità di quello spessore, che cambiamento pensi sia intervenuto? In una recente intervista hai parlato con angoscia di quella che hai definito una mutazione antropologica.
Sì, mi riferivo al fatto che oggi la gente è diversa e considera normali cose che sino a poco tempo fa non si consideravano tali. Cioè per mio padre l’universalismo era un dato di fatto, non aveva nemmeno bisogno di pensarci sopra, mentre adesso devi discuterlo, e anche così… Allo stesso modo per la sua generazione era ovvio che gli ebrei si occupassero del mondo anche, e proprio, a fronte di quello che avevano passato, della loro esperienza. Se vuoi era una cosa che faceva parte dell’etica: ecco è il rapporto con l’etica che non c’è più.

È questo forse uno dei modi di mutare antropologicamente, avallando come condotte accettabili e ovvie condotte prive di etica. Anni fa, una volta accompagnai mio padre a parlare in una scuola di Roma. Dopo che ebbe finito di raccontare di sé, dell’esperienza partigiana e degli anni trascorsi in prigione, un bambino si alzò e disse: «Ma scusi, lei era già ebreo, chi gliel’ha fatto fare di essere pure partigiano?» Questo però è il clima oggi, capisci.

Enzo Traverso attribuisce la crisi dell’intellettuale ebreo europeo alle due grandi «religioni laiche» della Shoah e dello Stato d’Israele. Perché gli accademici ebrei italiani fanno sentire così poco la loro voce?
Il fallimento, se così vogliamo chiamarlo, risale agli ultimi trenta-quarant’anni, sarà stato il terrorismo, il sovranismo o la prevalenza di nuovo di criteri identitari e religiosi. Se guardi al passato ti accorgi che c’erano molta più libertà e complessità di interpretazione del reale, un reale che non è solo ebraico, ma si intreccia in maniera molto complessa con l’ebraismo. Adesso è tutto molto semplificato. Per esempio, tranne poche eccezioni, penso a JCall, oggi nel mondo ebraico non si può più dire di non essere sionisti, o di essere critici della politica di Israele, senza essere accusati di antisemitismo. Per non parlare del fatto che l’unico parametro di valutazione è diventato il rapporto con Israele. Lentamente si è creato un clima di paura che ha fatto tacere anche gli accademici ebrei e ancor di più gli altri.

Tornando alla didattica della Shoah, su cosa vi vengono poste le domande? Come vengono preparati i ragazzi?
Le domande sono quasi tutte su Israele, e anche questo è significativo. Ma si lavora bene solo quando i professori hanno svolto una vera preparazione. Il problema è che anche gli insegnanti si muovono in un clima di condizionamento. Guardano al sapere comune storiografico, non vanno oltre. Alcuni hanno rapporti con Yad Vashem, il Memoriale Israeliano della Shoah, senza che questo però li porti a una maggiore apertura. Io invece credo che questa apertura sia necessaria. Innanzitutto va stabilito un rapporto con gli altri genocidi del Novecento, che ovviamente sono tutti diversi e rispetto ai quali la Shoah ha delle peculiarità enormi. Il mondo ebraico teme che in questo modo si rischi la banalizzazione della Shoah, ma questo discorso va affrontato, perché se tu parli solo degli ebrei e della Shoah, è un problema.

Recentemente hai curato per Laterza l’edizione italiana di un libro sulla storia mondiale degli ebrei. Un titolo molto ambizioso, ma sei riuscita a far passare il messaggio che desideravi?
Il messaggio era già presente e forte nell’edizione originale francese, curata dallo storico Pierre Savy. Per l’edizione italiana abbiamo aggiunto alcuni saggi relativi non solo all’Italia, ma anche alle percezioni italiane di quali sono gli argomenti importanti qui per il mondo ebraico, come l’opera di Hannah Arendt per esempio.

Ma soprattutto abbiamo scelto di far sì che il libro terminasse con l’istituzione della Giornata della memoria come giornata di promozione di un’immagine non razzista e non antisemita dell’Europa, una giornata attraverso la quale l’Europa assume la memoria della Shoah a propria base etica. L’edizione originale francese invece finiva con un attentato antisemita di matrice islamica. Devo aggiungere che, rispetto a Israele, in Italia la storiografia è ancora molto indietro, in ritardo, ancora molto occupata dall’assimilazione e dai problemi identitari.

Effettivamente da Israele, nonostante il cupo clima politico dominante, si ergono voci di intellettuali e accademici che dimostrano una libertà di pensiero molto maggiore che in Italia, anche quando si parla di Shoah. Sempre in Israele, per esempio, già da anni si discute del rischio di diventare professionisti della memoria. Parlare di «shoah business», ossia degli investimenti di danaro intorno al ricordo dell’Olocausto è fondato, ma sembra che per affermarlo senza farsi spaventare dall’antisemitismo sia meglio detenere un passaporto israeliano. L’anno scorso ho intervistato Yishai Sarid, che nel suo libro, Il mostro della memoria, affronta proprio questi temi senza peli sulla lingua. Cosa ne pensi?
In Israele questo tipo di intellettuali sono una minoranza, ma restano l’intellighenzia del paese, mentre in Italia no. Cioè in Israele, la maggior parte dell’accademia e degli intellettuali in senso tradizionale, ovvero quelli che si aprono ai giornali, ai dibattiti politici, i grandi scrittori, ecc. hanno un ruolo, mentre in Italia non lo hanno più. Inoltre quando si trattano simili argomenti hanno tutti timore di apparire antisemiti.

Per questo noi, come intellettuali italiani, abbiamo bisogno che da Israele ci mandino un messaggio di libertà. Libertà di parlare, di osare, di collegare il passato con il presente, proprio perché se arriva da loro è in qualche modo legittimato. Personalmente quando ho l’occasione scrivo sempre della libertà di parola e del pluralismo israeliani, e penso: «Se dobbiamo essere tutti sionisti, perché poi quando viene una parola di libertà da Israele non la raccogliamo?» Inoltre, qui si ha spesso una visione monolitica di un Israele senza sfumature, quindi far passare un’immagine della grande varietà di opinioni nel Paese è di per sé un traguardo.

Con l’appoggio degli intellettuali israeliani si potrebbero organizzare delle discussioni e riflessioni, e non solo sulla Shoah, anche di carattere profondamente ebraico ma universalistico. E soprattutto indipendentemente dalle istituzioni ebraiche italiane, se queste non li ritengono abbastanza kosher. Insomma vorrei trasmettere agli intellettuali israeliani l’idea che adesso tocca a loro prendere in mano la palla, perché la diaspora potrà aiutarli a sua volta contro l’occupazione, ma solo se prima viene aiutata a riflettere. Il problema è che da tempo gli israeliani tendono ad andare per i fatti loro, trascurando la diaspora. Quest’ultima a sua volta, pur essendo subordinata, dal punto di vista intellettuale a Israele, non lo è di fatto ai suoi intellettuali, così che se anche tutti qui leggono i libri degli autori israeliani, i romanzi, alla fine la riflessione vera non la fanno.

Penso che le tue risposte, dalle quali trapela una certa tristezza, stimolino molte riflessioni. Vorrei farti un’ultima domanda in tema di identità. Tu, come me, provieni da una famiglia ebraica per parte di padre, e in età adulta hai scelto anche di convertirti formalmente all’ebraismo. Cosa pensi che oggi possa contribuire a determinare un’identità ebraica, su quali basi si poggia un’appartenenza nel complesso contesto che si è creato?
Guarda, quando penso all’identità ebraica mi ricordo sempre di uno studioso che sosteneva che gli ebrei tedeschi nel secondo Ottocento, a un certo punto si sono identificati come ebrei, non per la terra né per la religione, ma per la storia, perché avevano una storia da ebrei. E quando tu prima parlavi della Shoah e della famiglia Parenzo, mi è venuta in mente questa cosa. Ovvero, io sento molto che quello che mi ha portato all’ebraismo è la mia storia, il fatto di guardare indietro a quello che è successo, capendo che c’era una storia che non era diversa dall’altra grande storia, ma era comunque una storia con cui mi identificavo, la mia storia, che poi era la storia di tanti altri.

Certo, anche questo presenta dei rischi, perché può farti pensare che la tua storia sia diversa da quella degli altri, il che non è assolutamente vero. Oppure può farti pensare che sia una storia privilegiata, o che tutti quelli che non hanno la tua storia non valgano come te. Un rischio reale. Tuttavia mi sembra si tratti di rischi inferiori a quelli dell’appartenenza fondata sulla religione, la terra o il sangue, almeno credo…

9 febbraio 2022

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