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La sposa, una scelta necessaria

Intervista a Gabriele Del Grande

Io sto con la sposa è stato presentato all’ultima edizione del Festival del Cinema di Venezia nella sezione “Orizzonti” e in poche settimane è diventato un caso cinematografico. Settantamila spettatori in meno di due mesi, proiezioni in tutta Italia, la presentazione all’IDFA (il festival del documentario di Amsterdam) e l’approdo in questi giorni al Festival internazionale di Dubai per il documentario, finanziato da migliaia di produttori dal basso, che segue il viaggio di un gruppo di  siriani e palestinesi sbarcati a Lampedusa e diretti a Stoccolma. Un giornalista italiano e un poeta siriano palestinese, incontrati per caso in un bar di Milano, si offrono di accompagnare i viaggiatori attraverso l’Europa, inscenando un finto matrimonio, con tanto di sposa e invitati italiani e siriani al seguito…

Gabriele Del Grande, protagonista e autore del film con Khaled Soliman Al Nassiry e Antonio Augugliaro, è anche l’ideatore del blog Fortress Europe, l’osservatorio sull’immigrazione - online dal 2006 - che elenca e documenta i naufragi nel Mediterraneo dal 1988 a oggi, in cui migliaia di persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le nostre coste.

Il tuo impegno sul tema dei migranti va avanti da molti anni e non solo con il progetto Fortress Europe. Come è nata l’idea di questo blog?

In realtà è nato quasi per caso da un articolo scritto nell’estate del 2005 a Roma. Dopo il corso di giornalismo, facevo gavetta in un’agenzia stampa cui avevo proposto un articolo per provare a fare chiarezza sulle morti nel Mediterraneo. Scrivendo quel pezzo mi sono accorto che erano cifre impressionanti di cui nessuno aveva cognizione. Ho cominciato a mettere insieme i dati in un archivio che ho messo online nel gennaio 2006. All’inizio il blog era fatto soprattutto di numeri, con una lunga lista di naufragi documentati dalla stampa, un po’ di statistiche, ed era semplicemente un modo per condividere sulla rete le informazioni che avevo trovato lavorando a quell’articolo. Dai numeri sono passato alle persone, alle interviste, e nell’ottobre del 2006 ho lasciato il lavoro per fare il primo grande viaggio di tre mesi attraverso il Mediterraneo a raccogliere le storie dei viaggiatori. Quegli incontri mi hanno fatto percepire l’importanza di quel lavoro e dato la forza per continuare in questi otto anni.

Scrivi sul blog che dal 1988 almeno 21.439 giovani sono morti tentando di espugnare la fortezza Europa. Cosa possiamo fare per evitare questi bilanci tragici?

Si può agire su molti livelli. Le migrazioni rappresentano un fenomeno naturale nella storia dell’umanità, ma si dovrebbe intervenire nei contesti di guerra - penso a Paesi come la Siria, la Libia, devastati da conflitti che coinvolgono anche l’Europa. Occorre lavorare a livello politico per una giustizia internazionale e una risoluzione dei conflitti. D’altra parte, c’è il grande problema della mobilità, e quindi dell’accoglienza, di migliaia di persone, la maggior parte delle quali rimane esclusa dai meccanismi dei visti. Il più delle volte le nostre Ambasciate non li concedono per mancanza dei requisiti ed è diventato quasi impossibile ottenere un visto Schengen per i cittadini dei Paesi arabi e africani da cui si parte per raggiungere Lampedusa. Così, chi rimane fuori dal giro dei visti si affida al contrabbando: la frontiera di fatto è aperta, oltrepassarla legalmente è difficile, quindi si passa in modo illegale. Per risolvere il dramma delle morti in mare, l’Europa dovrebbe chiedersi come spostare attraverso canali legali i 100 mila che ogni anno transitano per il Mediterraneo. Esiste un modo per farlo e si chiama libera circolazione. Volendo procedere per gradi, basterebbe semplificare le regole sui visti, renderle più elastiche e facili. Credo molto a una grande liberalizzazione della mobilità, cioè a lasciare che sia il mercato del lavoro a decidere chi entra e chi esce, non il sussidio statale. Mi piace pensare a un mondo in cui chi sceglie di fermarsi in Italia lo fa perché sa di poter trovare un lavoro che dia dignità e garantisca un futuro. In Italia ci sono 5 milioni di immigrati e ogni anno migliaia di persone arrivano a Lampedusa senza documenti, senza nessuna possibilità se non quella di tentare la richiesta di asilo politico. Alcuni di loro sono rifugiati, molti siriani ed eritrei, altri sono semplicemente persone in cerca di lavoro, costrette a rimanere nel limbo per molto tempo in attesa di documenti che puntualmente non arrivano. Migliaia di persone finiscono così nella fabbrica della clandestinità, nei quartieri difficili delle grandi città italiane, diventano manovalanza per la criminalità o vengono sfruttati come a Rosarno. Dobbiamo semplificare i meccanismi d’ingresso e fare in modo che chi vuole andare in Germania vada all’Ambasciata tedesca e non a Lampedusa per poi affidarsi al contrabbando. In un mondo reso piccolo dalla globalizzazione, questo dovrebbe essere nella norma. Occorre un grande investimento politico, come già fatto con l’Europa, per avere anche il Mediterraneo della libera circolazione. Dobbiamo investire per la pace, il benessere e la cultura di questo mare, ma purtroppo prevale la direzione opposta: respingimenti, barriere e guerre.

 “Io sto con la sposa”, il documentario che hai realizzato con Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry, ha un titolo che suona come una precisa manifestazione di intenti... Qual è il messaggio che hai voluto dare con questo film?

Scegliere da che parte stare. La storia è piena di situazioni in cui si deve scegliere tra la legge dell’umanità e le leggi della società. È un conflitto antico come l’uomo, di fronte al quale non si può fare a meno di decidere: rispettare quello che è legale o quello che è legittimo? Stare con la sposa per noi è stato scegliere di disobbedire a una legge, facendoci carico di tutti i rischi penali che ancora corriamo, visto che potremmo essere denunciati e processati per aver fatto ciò che ancora oggi sentiamo come la cosa giusta. E non siamo in alcun modo pentiti, anzi la rifaremmo altre mille volte. Siamo entusiasti del fatto che tanta gente ci stia sostenendo - sono più di 70 mila le persone hanno visto il film in sala - e abbiamo ancora molte settimane di programmazione al cinema. C’è tutta un’Italia che condivide il messaggio del film e che crede che debba esistere una comunità di persone pronte a darsi una mano nelle circostanze più difficili.

Hai trascorso un lungo periodo in Siria dopo lo scoppio della guerra. Quale situazione hai lasciato? Come era organizzata la resistenza contro il regime di Assad e cosa ne rimane oggi?

Degli attivisti che organizzavano le manifestazioni nel 2011 non è rimasto nessuno. Alcuni sono stati ammazzati, altri sono finiti in carcere, altri ancora sono scappati. Tutti quelli che conosco sono dispersi nella diaspora siriana. Metà della popolazione, circa 10 milioni di persone, ha abbandonato il Paese. Oggi rimane chi lavora nell’emergenza, cioè medici, infermieri, insegnanti. In questo senso, sopravvive un attivismo fatto di volontari che restano in città martoriate come Aleppo a garantire l’assistenza medica e l’insegnamento nelle poche scuole rimaste. Ma l’unica voce è quella delle armi. All’inizio il conflitto era vissuto come una guerra di liberazione per abbattere il regime di Assad, ma non resta nulla di quel clima. Sono arrivati soldi e armi da finanziatori esterni, come l’Arabia Saudita e il Qatar, con interessi in Siria e nel Medio Oriente; di fatto è stato lasciato campo libero alle milizie di Al Qaeda e dell’ISIS perché rappresentavano il nemico perfetto, utile al regime per riguadagnare credibilità a livello internazionale. Insomma, la Siria ormai è una cancrena, un luogo con molti signori della guerra - tra cui Assad è il più forte in questo momento - dove si combatte tutti contro tutti e non esiste alcuna forza capace di ristabilire un minimo di libertà e democrazia. Dopo tre anni di guerra la Siria non esiste più. Solo due anni fa nessuno lasciava il Paese per venire in Europa perché tutti credevano che il conflitto sarebbe terminato in un mese o due. Nell’ultimo anno, invece, sono arrivati a Lampedusa 50 mila siriani - una minoranza rispetto ai 10 milioni in fuga - che non vogliono far crescere i figli nell’odio, nella violenza, nel settarismo. È una situazione molto triste, causata in parte anche dall’inerzia dell’Europa, che avremmo potuto evitare con l’impegno di tutti.

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