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La strage di Ankara e l'arroganza di Erdogan

intervista ad Antonio Ferrari

Lo scorso 10 ottobre Ankara, capitale turca, è stata teatro di due esplosioni, che hanno colpito decine di attivisti di una manifestazione pacifica convocata da sindacati, organizzazioni sociali e partiti dell’opposizione, tra cui i filocurdi del Partito democratico dei popoli (HDP). Le indagini ufficiali sono in corso, mentre il bilancio parla di 128 morti e 160 feriti.
Abbiamo raggiunto Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera, per discutere della situazione della Turchia, a pochi giorni dalle elezioni del 1 novembre.

Cos’è successo ad Ankara? Per cosa manifestava il corteo?

La manifestazione di sabato scorso era un corteo pacifista fatto di giovani aderenti soprattutto al pratico curdo HDP. Proprio questo partito è la grande novità della Turchia, non soltanto perché è riuscito a entrare in parlamento con una lusinghiera percentuale, ma perché la sua propaganda è riuscita ad attrarre anche altri voti dell’opposizione a Erdogan.
La protesta contro il governo va avanti ormai da tempo, ed è una mobilitazione contro episodi di intolleranza e brutalità che sono diventati quotidiani. Alla stampa è stato messo il bavaglio, le libertà fondamentali sono messe in discussione…Da qui nasce la protesta.
Le esplosioni del 10 ottobre avevano come obiettivo un corteo, dei giovani che partecipavano nel loro entusiasmo democratico a una marcia pacifica. Questo mi ha fatto immediatamente pensare alla nostra strategia delle tensione, a quello che è accaduto in Italia dalla fine degli anni ’60, e cioè a manovre attuate dai nemici della democrazia con manipolazioni da parte del potere.
Credo che oggi stia accadendo questo in Turchia, o almeno tale è la percezione della gente. Questo non significa certo che Erdogan abbia mandato i kamikaze, però dimostra che il governo non ha fatto tutto il possibile per impedirlo, oppure che agisce sulla base di rapporti ambigui, che passano sotterranei. Non dimentichiamo infatti l’atteggiamento avuto nei confronti dell’Isis. E non dimentichiamo nemmeno che, nonostante la Turchia abbia deciso di partecipare alla campagna internazionale contro lo Stato Islamico, invece di combattere l’Isis ha continuato a bombardare i curdi, con un’ambiguità di fondo che questo grande Paese non merita.

Giustamente sollevi la questione curda. Il Pkk dopo l'attentato ha proclamato un cessate il fuoco unilaterale, ma il governo turco ha continuato a bombardare obiettivi curdi. Fino a dove arriverà questo scontro?

Purtroppo temo che non dobbiamo aspettarci nulla di buono, almeno fino alle elezioni di novembre.
Qualcuno, governo compreso, ha inizialmente provato a lasciare intendere che nell’attentato di Ankara si potesse intravedere uno scontro tra la componente radicale curda e quella moderata. Trovo che questa sia un’assurdità. È vero infatti che il PKK ha sostenuto per molto tempo la lotta armata, ma è altrettanto vero che da due anni c’è un accordo, una specie di tregua, e il PKK aveva tutto l’interesse a rafforzare il movimento moderato, ovvero proprio quello rappresentato dall’HDP.
Fortunatamente ora anche lo stesso governo è stato costretto ad ammettere che non si tratta di uno scontro all’interno alla componente curda. Anzi, dopo la prima strage di Suruc a luglio e dopo altri episodi denunciati dagli stessi responsabili moderati del partito curdo, la strage di Ankara lascia capire che c’è una resa dei conti violenta da parte dell’estrema ala fanatica del movimento sunnita.
Una situazione del genere, se non viene domata, può portare a un clima da guerra civile, ed è l’ultima cosa che ci si possa augurare in un Paese al confine con la Siria.
Non dimentichiamoci inoltre che siamo in un momento particolarmente delicato: i curdi infatti sono gli unici che combattono davvero lo Stato Islamico - non dal cielo, ma sul territorio - e sono anche l’unico popolo, di quasi 40 milioni di persone, che non ha uno Stato e vive diviso tra Siria, Iraq, Iran e Turchia. Anche questo quindi fa parte del problema, che era stato silenziato per tanto tempo e che questa situazione può far riaffiorare.

Come ricordavi, il prossimo 1 novembre la Turchia è chiamata nuovamente al voto. Cosa dobbiamo aspettarci da queste elezioni?

Non credo che per il partito di Erdogan sarà facile ottenere la maggioranza dei due terzi, necessaria per cambiare la Costituzione e trasformare l’ordinamento in repubblica presidenziale. Credo anzi che l’AKP avrà difficoltà anche a ottenere la maggioranza assoluta, come è già successo alle scorse elezioni. La speranza di Erdogan per formare un governo è forse quella di trovare un accordo con gli ultranazionalisti di destra, da sempre favorevoli alla linea più brutale nei confronti dell’irredentismo curdo.
Questa insicurezza politica è un fenomeno nuovo per l’AKP, partito che ha restituito stabilità al Paese. In un passato non lontanissimo, infatti, la Turchia ha vissuto anni di grande incertezza economica e politica - basti ricordare i colpi di stato militare, ultimo dei quali nel 1980 per mano del generale Evren, o le proteste negli anni ’90 per far cadere il solito governo di coalizione enormemente corrotto. Dopo tutto questo, l’arrivo di Erdogan aveva rappresentato una grande speranza, dal momento che con il suo partito aveva ridato solidità e un’immagine credibile al Paese, anche davanti a un prezzo democraticamente discutibile, ovvero la barriera del 10% come soglia di sbarramento per l’accesso al parlamento. Purtroppo però, una volta raggiunto il potere, le asprezze caratteriali di Erdogan invece di attenuarsi si sono moltiplicate, e credo che certi atteggiamenti del presidente turco siano arroganze che un Paese maturo e democratico non può digerire facilmente.

Solo pochi giorni fa Erdogan è stato in visita a Bruxelles per discutere della questione migranti. Che ruolo gioca e giocherà la Turchia in questa partita?

La Turchia è fondamentale, sappiamo benissimo che è uno dei tre Stati - insieme a Libano e Giordania - dove si sono concentrati maggiormente i profughi siriani sfollati all’esterno del Paese.
Inoltre la svolta sui migranti in Europa si è avuta quando oltre che dai barconi via mare i profughi hanno iniziato ad arrivare via terra, partendo proprio dalla Turchia.
Direi poi che c’è un altro problema da non sottovalutare. Se in Giordania i migranti sono sunniti, come lo è la monarchia di re Abdallah, e se in Libano i siriani hanno trovato un ambiente familiare grazie anche al milione di libanesi che hanno parenti a Damasco, il caso della Turchia è molto più delicato.
Molti siriani che hanno raggiunto il confine turco non sono sunniti, ma alawiti; all’interno della Turchia abbiamo una maggioranza sunnita, ma anche la componente degli alevi, legati settariamente agli alawiti siriani. È evidente quindi che questo movimento degli alawiti siriani in Turchia ha determinato una situazione politica importante, che può condizionare anche la componente turca vicina - non dimentichiamoci che gli alevi sono alcuni milioni, presenti soprattutto a Istanbul e Smirne. Ecco perché il viaggio di Erdogan a Bruxelles è stato importante, e perché per il presidente turco è fondamentale che il problema migranti sia condiviso dall’Unione Europea.

Come ricordavi, parlare di Turchia oggi significa automaticamente parlare di Siria. Nella tua rubrica Voci dal Vicino Oriente su CorriereTv presentavi la tesi dell’ambasciatore Antonio Badini, secondo cui la Siria potrebbe essere la possibile via di uscita ai conflitti mediorientali. In che senso? È davvero così?

Credo che la proposta di Badini abbia una logica, ovvero si fondi sulla consapevolezza della necessità per i vari attori di agire in Siria con lo stesso obiettivo - che è quello di colpire i tagliagole dell’Isis considerati un nemico più o meno da tutti, anche se con qualche ambiguità - non “in ordine sparso”.
Siamo davanti a una situazione che rischia di cancellare non solo la Siria per come l’abbiamo sempre conosciuta, ma anche l’Iraq - senza parlare poi della Libia -, e per salvare l’integrità di questo Paese dobbiamo compiere dei passi realistici. Credo quindi che la proposta di Badini di un coordinamento, una conferenza, che metta attorno a un tavolo, senza prescrizioni e senza veti, tutti gli attori, sia una buona proposta per trovare la soluzione migliore a questa crisi.
Mi trovo quindi d’accordo con quanto scritto da Paolo Mieli nel suo editoriale sul Corriere della Sera, ovvero che l’Europa, davanti a Stalingrado, non si è posta il problema di aiutare gli stalinisti a resistere e a vincere. Eravamo alleati perché il nemico era Hitler, e prima di tutto occorreva sconfiggerlo. E difatti prima è stato vinto il nazismo, e poi sono state affrontate le divisioni tra due opposte concezioni del mondo con la Guerra Fredda. Non credo che questo modello possa essere matematicamente applicato anche alla situazione siriana con Assad, ma a volte il realismo è fondamentale e le scelte devono considerare quale sia l’obiettivo primario.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

13 ottobre 2015

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