«È il momento che gli artisti iraniani decidano da che parte stare. Schierarsi la notte della rivoluzione sarà troppo tardi». Ashkan Khatibi, attore, musicista e regista teatrale, ha preso posizione dai tempi dell’Onda Verde nel 2009 e da allora ha sempre sostenuto le sue idee, pur conoscendo le conseguenze a cui andava incontro. Quasi un anno fa, con l’inizio del movimento “Donna Vita Libertà”, le cose si sono complicate: è stato sottoposto a interrogatori e minacce che l’hanno costretto a lasciare l’Iran.
«Ho vissuto per dieci mesi in clandestinità, in una specie di autoimposta quarantena, perché non ero più al sicuro». Arrivato da poco in Italia, ha deciso di riapparire in pubblico per la prima volta in un incontro intitolato “Pane, teatro e censura”, che si è tenuto al Giardino degli aranci a Roma il 27 agosto nell’ambito del festival ScenArte. Durante la conversazione, che si è svolta in inglese con la traduzione della mediatrice culturale Parisa Nazari, Khatibi ha intrattenuto brillantemente il pubblico per più di due ore, tracciando una panoramica storica della scena teatrale iraniana e raccontando le difficoltà a cui sono sottoposti gli artisti.
Dopo la Rivoluzione islamica del 1979 il mondo dell’arte si è dovuto piegare di fronte all’ideologia khomeinista, che considerava l’atto di creazione prerogativa divina e che denigrava il cinema in quanto prodotto dell’Occidente. «Ma gli artisti iraniani hanno sempre trovato un modo per continuare a esibirsi. Durante la guerra contro l’Iraq (1980-1988), le compagnie andavano in scena mentre si sentivano le esplosioni delle bombe che colpivano le maggiori città del Paese», ricorda Khatibi. Impossibilitato a bandire ogni forma d’espressione artistica, il regime ha lentamente concesso agli artisti che non avevano scelto la via dell’esilio di tornare al lavoro, tenendoli però sotto stretta sorveglianza o assoldandoli per la produzione di opere di propaganda.
Per allentare il giogo della censura, alcuni autori hanno sperimentato generi più filosofici o mistici, che però non avevano grande seguito. «Perché è questo che fa più paura al regime – spiega Khatibi - il pubblico». Proprio per questo motivo, racconta l’attore, ci è voluto del tempo perché il regime si rendesse conto del potenziale del teatro, perché non credeva potesse essere in grado di attirare un vasto pubblico. Nel corso degli anni ’90, però, gli artisti hanno cominciato a partecipare a festival internazionali, a tradurre opere di altri Paesi, a portare nel teatro iraniano una contaminazione di gusti e generi diversi che hanno attirato nuovo pubblico. «Le persone facevano la fila per andare a teatro, perciò il governo ha cominciato a stringere le maglie della censura, a complicare tutto con la burocrazia, rendendo sempre più difficile agli artisti portare in scena le proprie opere».
Ashkan Khatibi, oltre che come attore, ha lavorato per anni anche nelle produzioni teatrali e conosce bene i meccanismi, anche economici, che regolano questo settore. «L’anno scorso il budget statale per il teatro è stato di 3 milioni di dollari. Di questi, un milione è destinato ai festival del regime o a finanziare opere di propaganda, oppure ad artisti vicini al governo, che io chiamo “artisti corrotti”». Per gli operatori culturali (passati da 50mila a 15mila persone dopo la pandemia) sta diventando sempre più difficile continuare a lavorare. «La maggior parte fatica ad arrivare alla fine del mese ed è costretta a fare altri lavori. Oltre alla mancanza di pubblico e di sale adeguate, devono fare fronte a un complicato meccanismo di permessi per cui è quasi impossibile portare avanti più di un progetto all’anno».
La burocrazia soffoca la creatività e costringe gli artisti a dedicare la maggior parte del proprio tempo ed energie a cercare soluzioni per poter andare in scena. «Ogni opera – spiega Khatibi- deve essere caricata su un sito governativo almeno 3-5 mesi prima per essere vagliata da degli ispettori. Ci sono regole assurde, come l’obbligo di fornire il codice identificativo dell’autore, anche se è straniero o è morto da secoli. Come faccio a fornire il codice identificativo di Shakespeare? Se l’autore è iraniano ed è deceduto serve una lettera di autorizzazione di almeno due familiari». Tutto questo serve soltanto per poter cominciare le prove, ma fino all’ultimo nulla assicura che si potrà andare in scena.
«Un paio di settimane prima del debutto, un gruppo di ispettori si presenta alle prove e solitamente compila delle liste lunghissime di cose da modificare, tagliare o addirittura aggiungere al copione». Il motivo per cui questa verifica avviene così tardi è per dare meno tempo possibile per pubblicizzare il lavoro e vendere meno biglietti. Infine, quando e se lo spettacolo riesce finalmente a debuttare, c’è sempre la possibilità che tra il pubblico ci siano degli “agenti segreti” che assistono per assicurarsi che “le linee rosse” imposte dalla censura non siano sorpassate. Si tratta di una serie di divieti che proibiscono anche il solo riferimento a certi temi: il sesso, l’alcool, la dittatura, la rivoluzione sono evidentemente argomenti banditi. Ci sono parole che non possono essere nominate: per fare un esempio eclatante il mese di Ābān (che corrisponde a fine ottobre-fine novembre) non può essere menzionato per via del massacro di circa 1500 persone avvenuto nel 2019.
Se è evidente che andare in scena in queste condizioni sia estremamente complicato, secondo l’artista «essere un’attrice in Iran è come avere dei superpoteri, perché per loro ci sono ancora più divieti e quando sono sotto le luci dei riflettori le donne non sono persone, per il regime sono sempre e comunque un problema». Ovviamente le artiste devono essere coperte e devono assicurarsi di non far percepire i movimenti del corpo. Per questo motivo non sono autorizzate a correre o a danzare, e nessun tipo di contatto fisico è permesso. Alle donne è anche vietato cantare da soliste, devono essere almeno in tre. «Tutto questo è molto stressante per le compagnie ed è paradossale che alla fine delle repliche ci sia un tale sollievo perché sappiamo che il pericolo è passato e non potranno più farci nulla. Ma il teatro non dovrebbe essere così - sottolinea Khatibi - l’arte dovrebbe essere spontanea e creare una connessione con il pubblico».
La tragica ironia della censura è che gli artisti si sono ritrovati a cercare soluzioni e idee sempre nuove per poter aggirarla, spingendo al massimo la loro creatività. «Ad esempio si possono sostituire i nomi persiani con nomi stranieri, o ambientare le opere in altri Paesi. O ancora cambiare l’epoca in cui si svolge il racconto, anche se al pubblico è chiaro che si sta parlando dell’Iran. Oppure si cerca di adottare un linguaggio simbolico, che è tipico anche del teatro classico Taziyeh». Anche la nuova generazione, la stessa che sta portando per le strade le istanze di cambiamento che da un anno stanno scuotendo il Paese, deve far fronte a queste difficoltà. E lo sta facendo con tutta la forza che le viene non solo dalla giovinezza, ma anche dal fatto di essere connessa con il mondo esterno. «La domanda che pongono questi ragazzi è semplice: perché la mia vita deve essere così limitata solo perché siamo nati in questo Paese?». La stessa domanda che Sarina Esmailzadeh scriveva sui suoi social prima di essere uccisa durante le proteste il 23 settembre 2022, all’età di 16 anni.
Secondo Khatibi «il regime è terrorizzato da questi ragazzi, perché non credono in alcun tipo di confine o di censura. Sono troppo giovani per non avere speranza nel cambiamento e si batteranno fino all’ultimo per ottenere la vita che desiderano». Per questo l’artista ha creato anni fa un gruppo teatrale (chiamato Chahar Payeh, “sgabello”) composto da una sessantina di giovanissimi e li sta aiutando a portare avanti i loro progetti artistici, anche ora che sono lontani. «Sono loro la mia speranza. All’inizio erano pieni di paure e non credevano in loro stessi. Ma questi giovani non sono solo talentuosi, a differenza della generazione precedente sanno cos’è il lavoro di squadra e sia sul palcoscenico che fuori c’è un’armonia incredibile tra loro». Questo gruppo, come tanti altri giovani artisti in Iran, ha deciso da che parte stare. «Non gli interessano i permessi e le autorizzazioni. Portano i loro spettacoli dove possono, nei garage, nei seminterrati, nei caffè. Perché sanno che con questo regime non si può scendere a compromessi».
Da parte sua, Ashkan Khatibi continua a guidarli e a guardarli da lontano, convinto che se ci sarà un cambiamento in Iran sarà grazie a loro.