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Palmira, la Siria e la "guerra per tappe"

intervista ad Antonio Ferrari

Lo scorso 20 agosto, a due giorni dalla scomparsa di Khaled al-Asaad, l’editorialista del Corriere della Sera Antonio Ferrari suggeriva, per ricordare il coraggio del custode di Palmira, di pensare a un albero con il suo nome al Giardino dei Giusti del Monte Stella. Il 10 ottobre Milano ha deciso di rendere omaggio ad al-Asaad e di onorarlo al Giardino dei Giusti di tutto il mondo.
Con Antonio Ferrari abbiamo parlato di questo riconoscimento, di Palmira e dell’attuale situazione in Siria.

Milano ha deciso di dedicare a Khaled al-Assad, custode di Palmira, un albero al Giardino dei Giusti del Monte Stella. Qual è l’importanza di questo riconoscimento, che tu per primo hai promosso dalle pagine del Corriere della Sera?

Innanzitutto personalmente sono molto contento per questo risultato. L’appello che ho fatto veniva dal cuore, da una condivisione quasi planetaria di rabbia e partecipazione per questa terribile scomparsa. Anni fa ho incontrato Khaled a una cena… Ricordo un uomo molto pacato, profondo, che esprimeva l’amore per il suo lavoro di custode di uno dei grandi patrimoni dell’umanità. Di fronte alle immagini della sua brutale uccisione ho subito pensato che fosse necessario fare qualcosa per non far spegnere la memoria. Da questo partiva l’idea di lanciare un appello per onorare un uomo giusto che ha dato la vita per preservare i tesori di cui il mondo è straordinariamente ricco, sebbene stia subendo perdite e mutilazioni gravissime. Credo quindi che dedicare un albero e un cippo del Giardino dei Giusti a Khaled sia il modo migliore per cercare di tramandare un esempio per la nostra mente e il nostro cuore.

Come ricordavi, dopo l’uccisione di Khaled al-Asaad abbiamo assistito alla distruzione dei tesori che lui custodiva. Cosa significa aver perso Palmira?

Non solo abbiamo perso Palmira, ma anzi credo che la città sia stata addirittura sacrificata. Il regime di Assad, che è ancora presente in Siria e da molti è vissuto come alternativo al caos degli estremisti del Daesh, non riusciva più a mantenere il controllo sulla città. Temo quindi che ci sia stato un sacrificio ingegneristico, studiato a tavolino proprio per questo motivo. Fortunatamente Khaled al-Asaad è riuscito, ben sapendo quali erano i limiti della difesa di Palmira, a far trasferire nella zona protetta dal regime una gran parte delle statue. Certo, la città nella sua interezza non è più quella di prima, ma quantomeno queste testimonianze sono state salvate dalla distruzione e dal contrabbando. Non dimentichiamoci infatti che, come ha ricordato il Ministro degli Esteri Gentiloni in un dibattito a Tirana, che io moderavo, Daesh ricava oltre 1 miliardo di euro dal racket di petrolio e opere d’arte.

Si poteva fare qualcosa per salvare Palmira e al-Asaad?

Palmira doveva essere salvata, ma ancora una volta ci troviamo davanti ai tanti errori che hanno accompagnato le primavere arabe. Al termine di queste rivolte, i regimi sono stati abbattuti o indeboliti, ma non sono stati sostituiti con altri più accettabili. La Tunisia è l’unico Stato in cui si è creata una rinnovata forza democratica, ma il Paese è molto fragile, come hanno dimostrato i due gravissimi attentati al Museo del Bardo e al resort di Sousse. L’Egitto è passato dalla dittatura militare di Mubarak a un altro regime militare, quello di Al Sisi, passando attraverso lo sciagurato anno dei Fratelli Musulmani e del presidente Morsi. Come ha detto più volte Romano Prodi, quando si è di fronte alla fine di un regime, occorre sempre chiedersi cosa succederà dopo, quale sarà il passo successivo. Il crollo della dittatura è stato disastroso per la Libia, e lo è oggi per la Siria. Se fossero state fatte delle forti pressioni su Assad da parte dalla comunità internazionale, con molto realismo e magari con l’accordo della Russia - che continua a sostenere il regime e che non rinuncerà mai al suo porto strategico di Tartus -, la primavera siriana si sarebbe forse trasformata in qualcosa di meno drammatico. Oggi invece abbiamo 250mila morti, quasi 9 milioni tra profughi e sfollati, un regime che controlla il 30% del territorio, altre forze che si spartiscono il restante 70, e soprattutto la violenza del Daesh che ha imposto il terrore e lo ha esteso anche all’Iraq - dove tuttavia c’è una maggioranza sciita e una sorta di “ombrello” di protezione di Teheran.
Ritengo quindi che qualcosa andasse fatto in Siria, ma non soltanto per salvare Palmira, bensì per evitare quel bagno di sangue a cui stiamo assistendo. Ancora una volta invece l’Europa non è stata in grado di dare una risposta unitaria, e l’Occidente ha dimostrato una grave miopia dal punto di vista geostrategico. A questo aggiungiamo poi il fatto che gli Stati Uniti si sono allontanati dall’area mediorientale, lasciando marcire situazioni che invece prima in qualche modo venivano controllate.

La situazione in Siria è sempre più complessa, si aprono nuovi fronti e nuovi conflitti, intervengono nuovi attori, mentre si fa sempre più drammatica la situazione dei profughi in fuga dalla guerra. Cosa dobbiamo aspettarci ora?

Credo che la situazione non sia destinata a migliorare. Il gioco a incastro è troppo complesso perché si possa sciogliere e riportare in un alveo accettabile. È difficile anche fare previsioni realistiche sul futuro del Paese. Sicuramente la Russia, come sta dimostrando anche in questi giorni, non abbandonerà Assad, e quindi contratterà fino alla fine la sua eventuale uscita di scena o l’eventuale pressione sul regime. Non dobbiamo inoltre dimenticare le parole di papa Francesco, che ha parlato di una “guerra per tappe”. Stati Uniti e Russia dispongono complessivamente del 93% delle testate nucleari del mondo, il che impone la necessità di un accordo realistico e molto lungimirante. Ecco perché forse oggi l’unica possibilità per cercare di appianare in qualche modo i conflitti in Siria è un accordo tra le due grandi potenze, guardando anche alla Cina.
Nel frattempo purtroppo siamo di fronte a un’Europa divisa, che non decide, litiga, pur essendo il migliore Welfare State possibile, invidiato da tutti. Siamo diventati vecchi e stanchi, ciascun Paese ha una propria visione e pensa ai suoi interessi, quando nel mondo è in atto un esodo biblico, che secondo il Pentagono durerà altri 20 anni. È quindi sempre più urgente una vera e credibile strategia non solo nazionale ma europea, per rispondere realisticamente e in modo efficace a un problema che deve essere affrontato da tutti i Paesi dell’Unione.

Spesso si sente parlare del silenzio del mondo musulmano e degli imam nei confronti del fondamentalismo. Cosa ne pensi? È davvero così? Può esserci un’evoluzione?

Purtroppo temo che sia vero. L’accordo sul nucleare iraniano - di cui va dato merito a Obama, artefice di questo negoziato con l’aiuto della Russia - è stato un grande risultato, ma il problema oggi non è all’interno del mondo sciita. La competizione, da sempre latente, tra sciiti e sunniti, oggi si è trasformata in conflitto, ma quello che ancor di più preoccupa è lo scontro all’interno del mondo sunnita. È questo il problema, ed è qui che prendono forza i tagliagole dell’Isis.
Il mondo sunnita ha mille sfaccettature: sunnita è l’Arabia Saudita, è l’Egitto del generale Al Sisi, sunniti sono i palestinesi di Abu Mazen e la Giordania di re Abdallah - sovrano lungimirante di un Paese di 4,5 milioni di abitanti che, all’interno dei suoi confini, ospita più di un milione di profughi. Pensiamo tuttavia anche al Libano, che ha una maggioranza sciita, ma anche una importante componente sunnita, o alla stessa Turchia, che pur avendo un forte gruppo di alevi ha una maggioranza sunnita.
Bisognerebbe quindi che i Paesi dotati della potenza economica e strategica, nonché della credibilità per dare un segnale - e mi riferisco soprattutto all’Arabia Saudita - prendessero finalmente una posizione forte, e non si limitassero all’acquiescenza. In pochi hanno parlato, anche a rischio della vita, e io credo che il silenzio di troppi sia una delle cause dello sviluppo di una situazione di terrore che sta abituando anche noi a vivere o a convivere con la paura.
L’Iran oggi è diventato un potenziale partner dell’Occidente, l’Arabia Saudita lo è sempre stato; se questi due Paesi cominciassero a impegnarsi nell’arginare le forze estremiste, credo che avremmo compiuto, anche all’interno dell’Islam, un grande passo avanti.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

11 settembre 2015

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