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Sulla cultura dell'odio

Intervista a Milena Santerini

A seguito del Secondo incontro internazionale di GariwoNetwork, che si è tenuto il 29 novembre ai Frigoriferi Milanesi, abbiamo parlato del tema dell’odio e della cultura del nemico con Milena Santerini, ordinario di Pedagogia alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica del S.Cuore di Milano, già deputata alla Camera, da anni impegnata - in particolare nell’ambito del ruolo di Coordinatrice della No Hate Parliamentary Alliance al Consiglio d’Europa - nella lotta all’odio e al razzismo.

Alla luce del suo costante e duraturo lavoro per contrastare odio e discriminazioni, a coordinamento anche dell’Alleanza parlamentare contro l’intolleranza e il razzismo del Consiglio d’Europa, come vede l’odio oggi rispetto al passato? Quali sono gli aspetti che lo contraddistinguono in Europa?

Mi occupo del tema dell’odio da tanti anni, a livello culturale, politico e scientifico e, in questo senso intendo per odio tutte le forme di ostilità verso un nemico e verso in particolare le minoranze, che, evidentemente, sono sempre esistite nella Storia, ma ora assumono delle caratteristiche particolari. Anche all’interno della mia azione al Consiglio d’Europa ho sempre sostenuto che, pur essendo molto specifiche, le varie forme di razzismo, xenofobia, antisemitismo, islamofobia possono rientrare tutte nella categoria dell’ostilità, spesso dimostrata senza motivo. L’antisemitismo, ad esempio, è esattamente una forma di ostilità essenziale, ossia che riduce l’essenza dell’altro a categoria per poterlo colpire. Intendo quindi, per odio, non soltanto quello inteso come “conflitto”, ma quello che assume l’altro in modo astratto, come capro espiatorio, come nemico e responsabile di tutti i problemi.

Oggi, in Europa, questo fenomeno antico come il mondo prende delle caratteristiche nuove. Una di queste è appunto l’essere fortemente legato alla crisi economica, alla penuria di risorse e quindi alla competizione per le stesse con chi viene da fuori - che viene percepito come un “nemico”, un “invasore”. È questo il caso, soprattutto, di come vengono identificati gli immigrati o le minoranze. Da qui prende forma la crescita di populismi, nazionalismi, sovranismi che, ultimamente, rappresentano una vera e propria fonte di odio.

Il nuovo aspetto predominante è infine la tecnologia, perché l’online non è solo un mezzo neutro che può essere utilizzato per propagare l’odio ma è qualcosa di più, qualcosa che favorisce, in qualche modo, l’erosione della democrazia. Il Web agevola la diffusione di una cultura orizzontale che, se è interessante e utile per certi aspetti, per altri può portare a dei fenomeni perversi: mina la fiducia nelle autorità e nelle fonti scientifiche accreditate, si affida agli algoritmi sottraendo potere all’individuo per darlo alle macchine, riconosciute come più “giuste”, nonostante sia vero esattamente il contrario. In sostanza, viene meno la democrazia rappresentativa e si stabiliscono nuove forme, non migliori, di non legame tra i cittadini.

In questo contesto, si inseriscono anche altri aspetti dell’online che favoriscono l’esplosione dell’aggressività: l’anonimato, l’impulsività e la rapidità delle azioni, e così via. I fenomeni come lo stare “nelle propria bolla”, il polarizzarsi dicendo “io la penso come il mio gruppo e mi rifiuto di ascoltare le opinioni dell’altro” sono sempre esistiti, ma su Internet trovano purtroppo delle facilitazioni proprio dal punto di vista tecnologico.

Il 12 novembre al Memoriale della Shoah si è svolto, nell’ambito dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), un convegno dal titolo “Il nemico innocente. L’incitamento all’odio nell’Europa contemporanea”, di cui lei ha curato l’organizzazione e in cui è intervenuta sul tema Odio2.0. Che cosa è emerso dall’incontro?

Abbiamo organizzato il convegno nell’ambito dell’IHRA - la task force internazionale di tutti i governi che si occupano di Memoria e insegnamenti intorno alla Shoah -, in collaborazione con il Memoriale della Shoah e con la direzione del MIUR. È stato molto interessante. In particolare vorrei citare l’intervento di Andrea Riccardi, storico e Presidente della Società Dante Alighieri, che ha ripercorso la Storia per evidenziare come l’odio nasce quasi sempre dal nazionalismo, cioè da questo ciclico riemergere del culto della nazione e del proprio popolo contro gli altri. Sono state molto significative, inoltre, le analisi di tutti gli aspetti del collegamento tra razzismo e antisemitismo, in che cosa coincidono e in che cosa si differenziano, a fronte anche della diffusione delle nuove forme di razzismo. La parola “razzismo” non sempre rende però esaustivamente ciò che si vuole dire: molti sono razzisti pur non credendo alla razza o alla gerarchia biologica delle razze, ma rimangono razzisti nel senso d’intolleranza e di fatica nel capire che le culture possono convivere. In più, ci siamo occupati molto del tema dell’odio online, di come lavorare sul digitale a livello soprattutto di educazione alla cittadinanza, di nuova educazione civica per contrastare l’odio sul Web.

La senatrice Liliana Segre ha fortemente voluto portare il suo testo per la proposta dell’istituzione di una Commissione parlamentare contro l’odio. Che ruolo deve avere, secondo lei, l’intervento istituzionale nel contrastare l’hate speech e nella regolamentazione del linguaggio del Web? Come vede la sua evoluzione?

La senatrice Segre ha ripreso il mio testo di proposta di legge - che ho presentato alla Camera nel 2015 - per l’istituzione di una Commissione contro l’intolleranza, il razzismo, la xenofobia e ogni forma di odio, recuperando le linee del mio intervento politico della passata legislatura, all’interno del quale parlavo di una necessità di contrastare l’odio in tutte le modalità in cui si manifesta.

Nella mia proposta, facevo ovviamente riferimento alle istituzioni, perché anche le istituzioni possono essere fonte di odio: il linguaggio politico è uno dei modi in cui propaghiamo l’aggressività, l’ostilità, l’insulto, la diffamazione, e quindi, in aggiunta, è la stessa politica che deve autoriformarsi. Naturalmente poi bisogna monitorare i fenomeni d’odio, chiamarli col loro nome, evitare che si consideri innocua la banalizzazione del linguaggio, perché le parole, invece, uccidono. Arrivare a forme di contrasto dal punto di vista di leggi che sanzionano questi comportamenti è necessario, ma io credo meno nella sanzione penale e più nel compito culturale, educativo, che dipende anch’esso dalle istituzioni.

Possiamo dire che è quindi in prima battuta su questo piano, quello dell’educazione, che si previene l’odio?

Il ruolo dell’educazione è sicuramente fondamentale, perché agisce alla radice dei fenomeni e non va soltanto a condannarli penalmente. A maggior ragione se si pensa che la sanzione, in certi casi, è addirittura controproducente, in quanto può rendere il razzista “vittima” e non “aggressore”. Ed è volontà dello stesso razzista, spesso, quella di essere riconosciuto più come “il perseguitato” che come quello che ha attaccato. Occorre quindi lavorare e ragionare molto sul discorso d’odio, andandolo a capire nelle sue diversità e sfaccettature. Ad esempio, l’antisemitismo possiamo definirlo come una forma demonologica, il razzismo non è più scientifico o biologico ma è di tipo culturale, più sottile e simbolico, il gitanismo ha delle caratteristiche specifiche molto legate all’elemento economico e sociale e alla difficoltà di convivenza con i gruppi Rom e Sinti, l’islamofobia è un altro discorso ancora… Si tratta di una serie di differenze da comprendere molto bene, non solo dal punto di vista individuale e naturalmente della scuola, ma culturale a tutti i livelli. Quindi significa attuare un’azione nel Web che contrasti l’ostilità, realizzare una collaborazione vera dei mass media, che spesso purtroppo contribuiscono più a rilanciare il discorso d’odio piuttosto che a sfavorirlo. Lavoro culturale vuol dire, in definitiva, qualcosa di più che semplicemente educare le nuove generazioni a scuola. 

Helena Savoldelli, Responsabile del coordinamento Redazione

6 dicembre 2018

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