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Shepherds and Butchers

di Oliver Schmitz Sud Africa, 2016

Dalla parte dei cattivi

Una sera di dicembre del 1987 in Sudafrica un ragazzo bianco mentre rientra a casa dal lavoro uccide inspiegabilmente sette giovani giocatori neri di una squadra di calcio locale. Non vi è alcun dubbio sulla sua colpevolezza, i parenti delle vittime esigono giustizia, e la pena di morte per l’imputato sembra una certezza. La difesa è affidata d’ufficio a un avvocato contrario alla pena capitale, che incuriosito dall’assurdità della strage e dalla mancanza di un movente qualsiasi, inizia a ricercarne la causa andando ad indagare nella vita del suo assistito, che da quando era diciassettenne lavorava come secondino nel braccio della morte, affiancando i condannati fino all’esecuzione mediante impiccagione. Questa è la trama di Shepherds and Butchers, film uscito lo scorso anno, diretto da Oliver Schmitz, adattamento dell’omonimo romanzo di Chris Marnewick e basato su un fatto realmente accaduto.

A mano a mano che scava nella vita e soprattutto nel lavoro del suo assistito, l’avvocato porta alla luce tutto ciò che sta intorno alla pena di morte: non solo la mera esecuzione, la misurazione della lunghezza della corda in rapporto a peso e altezza del condannato, l’apertura della botola, ma tutte le azioni e tutti gli attori coinvolti in tale pratica. Perché quando si pensa alla pena di morte ci si concentra sempre sul condannato; raramente sul boia, l’esecutore materiale della pena, colui che tira la leva o preme il bottone; mai sulle guardie che vivono fianco a fianco con i condannati, li accudiscono, parlano con loro, conoscono i loro familiari, li accompagnano al patibolo, infilano loro il cappio, sentono il rumore della botola che si apre, respirano l’odore della morte.

Ma proprio tali aspetti emergono in questa storia, trasformando il secondino da carnefice a vittima di un sistema perverso, che annulla le distanze tra “buoni” e “cattivi”, annienta la spersonalizzazione che permette agli esseri umani di ammazzarsi tra di loro, sostituendo la propria umanità con etichette impersonali, “il cattivo”, “il nemico”, “il diverso”, non qualcuno, ma qualcosa che si può sopprimere.

Perché in fondo è questo il meccanismo che si mette in atto in guerra e in tutte quelle occasioni in cui, legalmente o illegalmente, si toglie la vita un essere umano: lo si etichetta, lo si trasforma in qualcosa che è altro da noi, se ne cancella la parte umana, ben consapevoli che nel momento in cui si considera l’altro come una persona, il sopprimerlo si rivela essere un atto contro natura. Non si può essere pastori e macellai allo stesso tempo.

Una storia emblematica a doppio senso: il ragazzo traumatizzato dall’aver dovuto assistere alla morte di centinaia di esseri umani, con un volto, un nome, un passato, trucida in trance sette sconosciuti; i familiari delle vittime e i giurati imparano a conoscere il vissuto dell’omicida, ne recuperano l’umanità che il sistema non era riuscito ad azzerare e decidono di interrompere la spirale della morte.

Tea Camporesi

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