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Yolande Mukagasana ha testimoniato al mondo il genocidio contro i tutsi in Ruanda

sopravvissuta al genocidio, in cui ha perso la sua famiglia, fu salvata da una donna hutu

Yolande Mukagasana è una scrittrice e sopravvissuta al genocidio contro i tutsi in Ruanda, onorata al Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano per aver testimoniato la verità e per il suo ruolo nella riconciliazione in Ruanda. Ha dato vita alla Fondazione Yolande Mukagasana per la ricerca e la protezione della memoria del genocidio contro i tutsi. Abbiamo parlato con lei del genocidio e di come il Ruanda possa ripartire per costruire un futuro di tolleranza.

Le va di raccontarci la sua storia di vita e il suo salvataggio?

La mia testimonianza sul genocidio contro i tutsi in Ruanda è iniziata un anno esatto dopo lo scoppio delle atrocità, il 7 aprile 1995. Il genocidio era iniziato il 7 aprile 1994 e fu fermato, se così posso dire, a settembre. Indico il mese di settembre perché è in quel momento che le forze straniere lasciarono il Paese. Il Fronte patriottico aveva però già fermato il genocidio a luglio 1994 e aveva installato un governo il 19 luglio 1994.

Fu molto difficile, nella mia testimonianza, far capire allOccidente che si trattava di un genocidio perpetrato contro i tutsi, in quanto c’erano anche molte responsabilità straniere e soprattutto occidentali nel genocidio. Da ultimo, è stato il presidente francese Emmanuel Macron a riconoscere la responsabilità della Francia nel genocidio. Innanzitutto, è stato molto difficile per l’Occidente perché, per esempio, quando sono arrivata in Belgio vi erano persone che avevano collaborato con quel potere sconfitto che aveva fatto il genocidio. Era molto difficile far comprendere loro che si trattava dello stesso che aveva pianificato ed eseguito il genocidio. C’erano molte personalità genocidarie in Belgio, persone importanti… ex militari, ministri. Io cominciai a testimoniare, alle radio e televisioni; seppure tutti mi ascoltassero era però difficile credermi. Era difficile far passare il mio messaggio, molti mi credevano ma non i loro superiori, sia belgi che genocidari ruandesi…

Quando sono sopravvissuta e sono riuscita a lasciare il Paese - in quanto i genocidari si trovavano ancora anche in Ruanda e mi cercavano - credevo che le uniche persone che potessero comprendere ciò che avevamo passato erano gli ebrei, perché ci avevano preceduti nella sofferenza di un genocidio. Per me, fu un pensiero automatico. Non ebbi inizialmente la comprensione che mi aspettavo, ma mi armai di pazienza: spiegai, testimoniai, ovunque, anche nelle scuole. Fino a che il mio libro non fu tradotto in ebraico, attorno al 2008. In quel momento, iniziai a lavorare con più facilità con il mondo ebraico. Avevano, infatti, compreso che quella che noi e loro avevamo vissuto era la stessa ideologia di odio e così cominciammo a lavorare insieme.

Quando ho sentito, dunque, diffondere la menzogna che consisteva nel salvaguardare l’ideologia genocidaria, non potevo sopportarlo. Credo che sia stata proprio la mia rivolta interiore a darmi la forza di continuare, volevo fermamente che la verità sopravvivesse dopo la mia morte. Così un giorno, nel ’98, quattro anni dopo il genocidio (nel ’97 ho fatto uscire il mio libro), ho riflettuto su alcuni interrogativi: come potevamo ricostruire il Ruanda? com'era il Ruanda in quel momento? coloro che ci avevano uccisi volevano continuare a farlo? come potevamo vivere insieme e condividere un Paese?

È in quel momento che ho capito che avrei dovuto incontrare i sopravvissuti come me, per farmi raccontare ciò che avevano vissuto. Questo perché a volte, a un certo punto, un sopravvissuto crede di essere la sola persona che ha sofferto, o che il punto di vista degli altri sia diverso… si crea una continua incomprensione.

Riflettevo anche su quello che le autorità mondiali sostenevano, ossia che il Ruanda non era più un Paese, che andava diviso in due, una parte per gli hutu e una per i tutsi. E, qualora questo non fosse stato possibile, dicevano, il Ruanda avrebbe dovuto essere diviso tra l’Uganda, il Burundi, la Tanzania e il Congo, in quanto i ruandesi non sarebbero stati capaci di convivere. Questa prospettiva mi faceva paura.

Tornai in Ruanda e chiesi delle autorizzazioni per intervistare le persone sulle colline e incontrare gli assassini nelle prigioni.

Quando pensavo al fatto che avrei incontrato gli assassini della mia famiglia, provavo molta paura, e, nel momento in cui accadde, avevo il cuore che mi batteva all’impazzata e l’impressione che da un momento all’altro potessero agitarmi contro un machete. Ma resistetti; fu un modo per ricercare lumanità, persino tra gli assassini. Mi chiedevo: “hanno ancora qualcosa di umano dopo tutto quello che hanno fatto?”

Ciò che mi ha aiutato a rispondere a questa domanda è stato incontrarli. Inizialmente, notai che anche loro avevano paura, poi si tranquillizzarono e parlammo del genocidio. Compresi, grazie a quel dialogo, che i ruandesi dovevano assolutamente vivere insieme, capii che potevamo farlo. Avevamo un potere che voleva anch'esso che vivessimo insieme per ricostruire il nostro Paese, e, se non fossimo riusciti a farlo, sarebbe stata una catastrofe, il Ruanda non sarebbe mai più esistito. Mi dissi allora: “c’è bisogno che io vada avanti”. Soprattutto, nel far comprendere all’esterno la verità di ciò che accadeva: stavamo raccogliendo i pezzi per ricostruire il nostro Paese e vivere insieme.

Perché dovevamo farlo?

All’epoca del genocidio, la mia famiglia era tutsi ma le mie sorelle maggiori erano sposate con degli hutu e non sopravvissero al genocidio, i loro mariti non le protessero. Due delle mie sorelle sono state uccise dai loro stessi mariti. Mi hanno raccontato persino che uno dei figli delle mie sorelle partecipò al genocidio e possedeva un cane per scovare i tutsi. La mia famiglia è stata sterminata. Mi resi conto che si trattava di un problema immenso. C’era chi diceva che doveva esserci una parte per i tutsi e una parte per gli hutu, ma i loro figli? cosa dovevamo fare? Non era possibile… Bisognava invece ricostruire il Paese. Apprezzai, in questo senso, che il governo in Ruanda comprese che dovevamo restare uniti.

Si diceva che non era possibile fare giustizia per il genocidio, che ci sarebbe voluto un secolo per giudicare tutti i perpetratori, ma chi vive un secolo?

Dunque, fu così che il Ruanda decise di attingere alla cultura che cera prima della colonizzazione e installò i tribunali gacaca. Constatai che chi aveva avuto questa intuizione era una persona molto saggia, ancora non so chi sia, ma ho intenzione di scoprire da dove venne questa idea.

Bisognava dare la possibilità ai sopravvissuti di incontrare gli aguzzini delle loro famiglie e anche i propri. Tra i sopravvissuti, infatti, c’era chi era stato fisicamente ferito da quelle persone, c’erano donne che erano state violentate perché contraessero l’HIV. Molte di loro morirono perché non c’erano le cure. Paradossalmente, gli assassini in prigione ad Arusha venivano curati ma non si volevano curare le donne che erano state violentate. Ci sono state delle manifestazioni contro il Tribunale Penale Internazionale per far accettare che lo stupro venne utilizzato come un’arma durante il genocidio, sulle ragazzine, sulle donne, persino sulle donne anziane. Fu una battaglia terribile.

Nacque poi unaltra idea folle, quella che in Ruanda ci fosse stato un duplice genocidio (per meglio negare il nostro genocidio). Si diceva: “Sì, è vero gli hutu hanno massacrato i tutsi, ma anche i tutsi hanno ucciso gli hutu…”. Il dolore che questa affermazione ci provocava era immenso.

Decisi allora di continuare a impegnarmi, prima di tutto in Europa, perché si accettasse che c’era stato “un genocidio contro i tutsi in Ruanda”.

Un altro problema a cui dovevamo far fronte era capire da dove era nata l’idea del duplice genocidio. Avevamo scritto il genocidio fu “dei ruandesi”, ma chi li aveva uccisi? altri ruandesi… non potevamo quindi dire che si trattava del genocidio dei ruandesi perché non erano stati degli stranieri a compierlo. Era necessario quindi precisare chi fosse la vittima e chi il perpetratore in questo genocidio. Non era un genocidio dei ruandesi ma “il genocidio perpetrato contro i tutsi del Ruanda”. Ci siamo battuti e la dicitura è stata cambiata.

Io stessa, nel mio primo libro, avevo scritto “il genocidio dei ruandesi”, sapevo che non era vero, ma lo dissi perché l’Occidente, in prima battuta, accettasse perlomeno che ci fosse stato un genocidio. Non fu facile ma ci riuscii. Quando mi resi conto che l’Occidente aveva finalmente capito, tornai in Ruanda.

Ho continuato ad andare nelle scuole, attraverso l’Europa: in Italia, Francia, Belgio, Lussemburgo, Svizzera. Ma ho capito anche che dovevo costruire un lascito che le generazioni ruandesi avrebbero custodito. Io sono anziana e presto non ci sarò più. “Che eredità lascerò?” mi sono chiesta. È per questo che ho creato la Fondazione Yolande Mukagasana.

Come si può raccontare il genocidio a degli studenti figli o figlie dei genocidari o di coloro che sono sopravvissuti?

Prima di tutto, secondo me, bisogna avere un sentimento di compassione. Comprendere che i figli delle vittime e dei perpetratori sono prima di tutto dei ruandesi, sono fratelli. Se si comprende questo, allora si può capire anche come parlare loro del genocidio.

Abbiamo deciso di costruire, di ricominciare, da unidentità che abbiamo in comune e che è stata distrutta dalla colonizzazione: i ruandesi. In Ruanda, abbiamo la stessa lingua, cultura, credenza religiosa. Prima della colonizzazione avevamo tutto in comune… Ci sposavamo, avevamo dei figli insieme, li abbiamo ancora. I giovani oggi decidono ancora di vivere insieme… l’amore è presente. Non li possiamo certo separare. Dobbiamo invece insegnare a tutti i bambini la storia del genocidio. È necessario che i giovani sappiano come ciò è stato possibile e che, in primo luogo, è l’educazione che sta alla base di tutto.

Questo perché nelle scuole ci veniva insegnata una falsa storia su noi stessi, per dividerci. Come avevano fatto i colonizzatori, infatti, anche i poteri che sono succeduti alla colonizzazione hanno fatto la stessa cosa: si sono appoggiati su quello che hanno definito “la maggioranza”. Una maggioranza democratica, però, rispetta anche i diritti delle minoranze. Noi non abbiamo mai avuto dei diritti.

Dunque, ora, insegniamo ai bambini la responsabilità individuale, insegniamo loro che sono fratelli e che devono conoscere la verità sul passato per meglio costruire un avvenire insieme. In questo momento, c’è un progetto del presidente in persona che si chiama esattamente: “Io sono ruandese”. Questa frase esprime il fatto che abbiamo tutto in comune e i bambini imparano questo concetto fin da quando sono piccoli. Attenzione però, esiste ancora una certa ideologia di odio contro i tutsi che viene insegnata dai genitori ai propri figli. E da poco mi sono resa conto che c’è anche in Belgio. Ci sono, per esempio, delle associazioni di figli di genocidari, o i cui nonni sono stati genocidari, che sono prese sul serio in Belgio, come se fossero normali. Noi stiamo cercando di mostrare che ciò non è affatto normale e che c’è bisogno di un cambiamento.

In Ruanda, siccome abbiamo leggi che puniscono l’ideologia e le parole gencidarie, le persone non si mostrano molto. Ma, a volte, capita di venire a sapere che c’è un sopravvissuto che è stato ucciso perché si trovava lontano dai servizi di sicurezza. O che, quando non non è stato possibile uccidere la persona, è stata uccisa la sua mucca, o mutilata in modo che non faccia più latte.

Questo ci fa capire che la lotta contro lideologia genocidaria è un qualcosa che coinvolgerà generazioni di ruandesi. Per questo vogliamo che i bambini conoscano il passato così che possano sapere che saranno loro stessi a doversi costruire un futuro e un nuovo Paese dove non ci sia più odio né da una parte né dall’altra ma un futuro di tolleranza. Questo, comunque, non impedisce che i bambini nati dopo il genocidio, che siano figli delle vittime o dei perpetratori, abbiano dei traumi transgenerazionali. Prima in Ruanda non c’erano degli psicologi, ora li ricerchiamo, sono necessari. Non è facile, perché stiamo continuando a impegnarci per costruire, ma ci sono delle persone che cercano ancora di distruggere.

A cura di Helena Savoldelli 

20 dicembre 2021

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