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Non è un Paese per giornalisti

Eskinder Nega racconta il carcere etiope

Eskinder Nega è un giornalista etiope, premiato nel 2012 con il PEN Freedom to Write Award. Durante la sua carriera ha pubblicato numerosi articoli richiamando il proprio Paese alla necessità di riforme democratiche, e questo gli è costato una condanna a 18 anni di carcere per effetto della legge antiterrorismo approvata nel 2009 in Etiopia all’interno della strategia della “guerra al terrore”.

Tale norma è stata fortemente criticata dalle associazioni umanitarie, da diversi membri del Congresso degli Stati Uniti e dal Parlamento europeo, preoccupati per le restrizioni alla libertà di espressione e al giornalismo indipendente che hanno seguito l’entrata in vigore di questo provvedimento.

L’Etiopia è uno dei paesi più stabili del corno d’Africa, ma le organizzazioni che si occupano di diritti umani lo definiscono uno dei regimi più repressivi nei confronti dei giornalisti. Almeno 72 giornali, incluso quello dove lavorava Nega, sono stati forzati a chiudere su pressione del governo, guidato dal Primo Ministro Hailemariam Desalegn dallo scorso agosto, in seguito alla morte del dittatore Meles Zenawi.

Nega e sua moglie sono stati arrestati, insieme ad altri 9 giornalisti, per aver denunciato la repressione delle proteste antigovernative del 2005. Dopo 17 mesi - e dopo aver partorito - la moglie di Nega è stata liberata. L’Eritrea è il Paese con più giornalisti in esilio, secondo la stima del Committee to Protect Journalists, e in Africa solo l’Eritrea ha più reporter incarcerati.

Per il governo di Addis Abeba i giornalisti condannati sono terroristi a causa dei loro articoli che “incitavano il pubblico a portare le rivolte del Nord Africa e dei Paesi arabi anche in Etiopia”. Non sono dello stesso avviso i cinque esperti del panel istituito dalle Nazioni Unite, secondo cui l’arresto di Nega è il risultato di una campagna politica, che ha punito i reporter per il loro “esercizio pacifico del diritto alla libertà di espressione”.

Dalle pagine del New York Times si legge una cronaca dal “gulag etiope”. Scrive infatti Nega dalla sua cella:

“Sono imprigionato, insieme ad altre 200 persone, in una grande sala che somiglia a un magazzino. Per tutti noi, ci sono solamente tre bagni. Molti dormono sul pavimento, che non è mai stato pulito.

Sono stato arrestato nel settembre 2011 e detenuto per 9 mesi prima di essere giudicato colpevole nel giugno 2012, a causa della legge antiterrorismo, che apparentemente copre la “pianificazione, preparazione, cospirazione, incitazione e il tentativo” di atti terroristici. In realtà, la legge è usata come pretesto per arrestare i giornalisti che criticano il governo.

Non ho mai cospirato contro il governo; tutto ciò che ho fatto è stato raccontare la primavera araba e immaginare che qualcosa di simile potesse accadere in Etiopia in caso di mancata approvazione di riforme democratiche.

[In Etiopia] non è cambiato molto dalla morte, nello scorso agosto, del nostro ultimo dittatore Meles. Non ci sono stati significativi cambiamenti politici. Le dure leggi sulla stampa e la norma antiterrorismo sono ancora presenti. Non ci sono stati miglioramenti per la libertà di stampa.”

Il governo della seconda e più fiorente nazione africana non è criticato solo per gli attacchi alla libertà di stampa, ma anche per la sua ingerenza negli affari religiosi dei cittadini etiopi. I musulmani, che rappresentano circa un terzo della popolazione, hanno organizzato diverse proteste contro il governo, chiedendo anche la liberazione dei leader religiosi arrestati dal governo.

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