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C'è speranza contro l'odio?

di Giovanni Cominelli

Siamo tutti drammaticamente presi alla sprovvista dalle onde di odio, di parole aggressive, di maleducazione sfrenata, di incompetenza esibita, che si sono quasi all’improvviso levate dal mare tranquillo, in cui più meno placidamente ha veleggiato l’Italia negli ultimi decenni. E ci siamo meravigliati che anche una parte consistente della politica, da decenni sedatrice degli odi e dei conflitti anche più laceranti – basti pensare agli anni del terrorismo politico – sia entrata nell’arena, schierandosi dalla parte dell’odio, per trasformarlo in potenza politica, dotata di vasto consenso.

Alle generazioni uscite dalla Seconda guerra mondiale i loro padri hanno regalato settant’anni di benessere, sviluppo e “tranquillitas ordinis”, così Agostino definisce la pace. Perché, oggi, queste stesse generazioni sembrano rivoltarsi contro questo passato? Le più giovani, intanto, non dispongono naturalmente della memoria. Né pare che le istituzioni educative, famiglia e scuola, gliel’abbiano trasmessa. Quelle più anziane pare, invece, che l’abbiano perduta. Quali sono le cause di una tale imponente mutazione antropologica? Che, d’altronde, non è soltanto italiana, giacchè tocca l’intero Occidente euro-atlantico. Per quanto concerne le cause specificamente antropologiche, le ragioni non sono affatto misteriose. Noi - ciascuno di noi - siamo un parallelogramma di paure. C’è una linea di tensione primordiale, di cui le nostre strutture bio-neurologiche più antiche conservano tracce consistenti. Poi la linea delle paure storiche e poi quella delle paure, incertezze, angosce quotidiane. È un equilibrio dinamico, che viene stabilizzato dall’ambiente storico-sociale della civilizzazione in cui siamo immersi. Esso è costituito da educazione, socializzazione, istituzioni. Addomestica le nostre paure originarie, le fa condividere con altri e viceversa. Così costruiamo quella che Kant definisce la “Gesellige Ungeselligkheit”, “la socievole insocievolezza” delle società/comunità umane. Quando l’ambiente storico-sociale cambia, a seguito dell’irruzione di eventi esterni, quel parallelogramma si scompiglia, le tessere del puzzle volano via e l’angoscia, direbbe Freud, diviene “freischwebende”, liberamente fluttuante nello spazio psichico e sociale. È stato il tornado che chiamiamo “globalizzazione” a scoperchiare case, a provocare tsunami, a costringere a costruire ripari di fortuna, a mettere a nudo lo strato delle nostre paure originarie. Il prossimo diviene il lontano, l’amico il nemico, la carezza una minaccia, ritorna l’“homo homini lupus” quale principio di esistenza. Non più “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, ma “a ciascuno secondo la sua capacità di minaccia”. Non si sta più insieme come prima, non con le regole di prima, non con la democrazia liberale di prima. Si è trattato di un mutamento relativamente rapido: dagli anni ’90 del secolo scorso, circa trent’anni. Economia, finanza, comunicazione, l’ordine politico nazionale e mondiale sono stati attraversati da una profonda linea di faglia. E gli individui? Si guardano intorno smarriti, tra le macerie, come dopo un terremoto.

Fin qui la realtà così com’é. È un mondo pericoloso, assai simile alla giungla, nel quale sopravvivono i forti, soccombono i deboli. Considerata la potenza delle armi di distruzione, tuttavia, è un mondo in cui possiamo soccombere tutti, deboli e forti, vinti e vincitori, tutti sommersi, nessun salvato.

Ciò che appare paradossale in questa faccenda è che la storia è il prodotto degli uomini stessi. Perciò, se gli uomini hanno fatto, possono anche disfare o rifare. Solo che gli uomini non progettano la storia come invece è stato immaginato dal pensiero illuminista, hegeliano e marxiano. La Storia attuale è il prodotto casuale dell’accumulazione di miliardi di progetti individuali – i demografi ipotizzano che sulla Terra siano passati all’incirca 100 miliardi di esseri umani. Questa casualità non sfuggiva a Hegel, che però affidava all’Assoluto “che lavora alle nostre spalle” il compito di ricondurre a Ragione il caos dei comportamenti individuali e di progettare e produrre la storia degli uomini. La Mano invisibile di A. Smith si accontentava di costruire la “concordia discors” del Mercato, Hegel nutre ambizioni più metafisiche e più metastoriche. Una conseguenza inquietante della metafisica hegelo-marxiana è che qualcuno si autoproclami l’Assoluto e da quella altezza pretenda di progettare la storia umana e di tracciare i sentieri individuali di ciascuno. La storia del lato totalitario ‘900 è piena di queste pretese assolute: il comunismo, il fascismo, il nazismo, il fondamentalismo islamico…

Dunque, noi produciamo la storia, ma non controlliamo l’accumulazione finale che ne viene. Possiamo decidere di metterci in comunità per progettare l’ambiente storico-sociale circostante, possiamo farlo su piccola scala e per breve tempo. Ma la storia mondiale resta per il singolo solo un prodotto che gli si erge contro. E in ciò consiste la nostra finitudine, d’altronde.

Che fare, dunque, oggi, quando la storia si presenta mondiale al nostro cospetto, essendo questo l’effetto principale della globalizzazione? C’è un solo modo: quello di incominciare a costruirla insieme, individuo + individuo, comunità+ comunità, società civile + società civile, nazione + nazione. Sì, su scala mondiale. A partire dalla capacità di relazione, di cui ciascun essere umano dispone, a partire dal suo lato di socievolezza, altrettanto potente quanto quello dell’insocievolezza. La dimensione sociale è altrettanto fondata etologicamente quanto l’insocievolezza. Agostino ha tentato di spiegarlo con la teoria della “natura umana sauciata”, cioè ferita dal peccato originale. Socievolezza ferita, ma non distrutta irreversibilmente.

La democrazia liberale è costituita da un sistema istituzionale ben noto – le libertà e la separazione dei poteri – che ha alle spalle una metafisica implicita, meno nota: quella dell’ontologia della persona, cioè dell’individuo attraversato dalla voce dell’altro – persona da “per-sonare”: suonare attraverso. È proprio questa “metafisica” che la globalizzazione ha messo alla prova, è proprio questa metafisica che non viene insegnata, trasmessa, praticata, testimoniata. Di qui la crisi delle democrazie liberali. Il trend della paura, dell’odio, della violenza non si contrasta con i seminari di filosofia politica, con i dibattiti, con gli scritti – benchè siano utilissimi -, ma costruendo e praticando comunità di relazione e ambienti educativi coerenti. C’è speranza per tutto ciò? Dipende da che cosa si intenda per “speranza”. Ha scritto il Card. Martini: “la speranza non è una predizione, ma un orientamento dello spirito e del cuore; trascende il mondo che viene immediatamente sperimentato, ed è ancorata da qualche parte al di là dei suoi orizzonti. La speranza non è ottimismo; la speranza è la certezza che quello che si fa ha un senso, che abbiamo successo o meno”.

Non è un moto affettivo o irrazionale: nasce dalla capacità di vedere tra le pieghe della storia il Bene che c’è ora, dentro gli esseri umani, dentro le cose. 

Giovanni Cominelli

Analisi di Giovanni Cominelli, giornalista

3 settembre 2019

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