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Come sono fuggita dall'Arabia Saudita, il regno che terrorizza le donne

la testimonianza di Reem Abdellatif, corrispondente dal Medio Oriente

Giovani in Arabia Saudita

Giovani in Arabia Saudita

Reem Abdellatif racconta su Haaretz la difficoltà di essere donna in Arabia Saudita. Come giornalista ed editor in lingua araba in Arabia Saudita, subisce una serie di abusi che la costringono a lasciare il Paese. “La campagna diritti delle donne di Mohammed bin Salman, e il parlare di una nuova Arabia Saudita, rimangono solo strategie di pubbliche relazioni”, dichiara Abdellatif.

Dal 2014 al 2019, ho lavorato come giornalista ed editor negli Emirati Arabi Uniti per imprese gestite da sauditi per definire con loro la comunicazione aziendale e le strategie per i media.
Come donna di lingua araba di origine mediorientale, ho trascorso molto tempo in Arabia Saudita, disponendo  di un visto di cinque anni, che consentiva viaggi di lavoro, e ho incontrato e discusso con molti imprenditori sauditi, professionisti dei media e analisti vicini all'élite al potere.
Quel periodo ha coinciso con il programma di diversificazione economica dell'Arabia Saudita, Vision 2030, che è stato lanciato dal principe ereditario de facto Mohammed bin Salman (MBS) nel 2015. L'Arabia Saudita aveva appena aperto il mercato azionario agli investitori internazionali per liberalizzare l'economia e diversificare dal petrolio.
Ero stata assunta per dare risalto alla trasformazione economica dell'Arabia Saudita e a quel tempo percepivo la speranza e l'amore dei giovani sauditi per il loro Paese e il loro desiderio di un cambiamento nella tecnologia, nella finanza, nell'economia, nella musica e nell'arte.

Nel 2019 sono passata alla TV di Stato saudita per un lavoro analogo, che è durato meno di cinque mesi. Dopo quello a cui ho assistito, sapevo che era venuto il momento non solo di dimettermi, ma di lasciare definitivamente l'area del Golfo.
Nella mia carriera lavorativa, ho visto entrambe le facce della medaglia: i giovani che prendevano sul serio quella trasformazione e quelli che preferivano la corruzione e la burocrazia. Da allora il regno saudita ha subito apparentemente un enorme cambiamento sociale ed economico. Ma ciò a cui ho assistito mi ha portato a credere che le riforme siano solo superficiali, un mezzo per reprimere le persone che credono in una vera trasformazione.

La reale strategia mediatica dell'Arabia Saudita consiste nel sottovalutare le donne, offuscare la reputazione degli attivisti per i diritti umani e puntare il dito contro il regime iraniano per distogliere l'attenzione dagli abusi che avvengono nel cuore di Riyadh.

Non ci può essere una vera riforma in Arabia Saudita, nessuna autentica apertura o collaborazione con coloro che, fuori dal regno, dichiarano di difendere i diritti umani, fino a quando i suoi governanti e le élite, da Mohammed bin Salman in giù, non vorranno realmente rispettare lo stato di diritto, i diritti delle donne o la libertà per i giornalisti.

Quando ho iniziato a lavorare in Arabia Saudita era un periodo di grandi aspettative, soprattutto per le donne. I giovani ammiravano il principe ereditario Mohammed bin Salman e la sua visione. Avevano vissuto in un Paese in cui le donne non potevano guidare, la musica non poteva essere suonata nei ristoranti o nei luoghi pubblici. Il mondo è stato testimone del fatto che il regno per la prima volta in assoluto ha accolto piloti, artisti e musicisti di Formula 1 da tutto il mondo.

Ma ho anche sperimentato un'altra faccia del "miracolo saudita": il prezzo pagato dalle donne e dalla professione giornalistica.
Ho assistito a costanti abusi verbali nei confronti dei colleghi, intimidazioni di donne, aggressioni incontrollate e bullismo. L'abuso era personale e anche professionale: le giornaliste donne erano sminuite, le loro idee creative messe da parte, mentre i loro manager diffondevano notizie scandalose e superficiali per le piattaforme dei media statali, con un particolare interesse a umiliare e calunniare le giornaliste e le esponenti politiche in tutto il mondo.

E ho visto l'insabbiamento: l'intimidazione dei dipendenti da parte dei capi in modo che restassero zitti su ciò che avevano visto.
Sono io stessa una sopravvissuta a questi abusi.
Il comportamento scorretto di un manager, in particolare, mi ha reso impossibile la vita quando ero caporedattrice. Nei gruppi di lavoro WhatsApp imprecava con i giornalisti, interrompeva e umiliava le donne quando parlavano; invadeva il nostro spazio personale per urlarci in faccia. Per me quella era una linea rossa. È stato allora che ho temuto che il suo comportamento potesse portare a un confronto fisico.
Quando ho presentato una denuncia ufficiale, diverse donne mi hanno consigliato di rimanere in silenzio: sapevano quanto potesse essere pericoloso sporgere denuncia contro qualcuno con stretti legami con i circoli governativi sauditi.

Ho deciso di segnalare il comportamento del responsabile del reato principale al direttore delle risorse umane e al nuovo direttore esecutivo. Ho detto loro che non mi sentivo più al sicuro nella sua stessa stanza. Ho chiesto di parlare con l'alta dirigenza; ho parlato con un membro del consiglio.
Le mie suppliche sono cadute nel vuoto. Non ero la prima o l'ultima donna a denunciarlo per il suo comportamento. Una cosa era certa: era sostenuto da ogni uomo al potere. Era la mia parola, come donna, contro coloro che avevano potere su di me. Per le donne che erano i suoi bersagli, le scelte erano nette: o smettere, come ho fatto io, o essere trasferita in un altro dipartimento e obbligata a tacere.
Sono stato spinta a dimettermi, espulsa dall'Arabia Saudita e dalla regione del Golfo
. Ma ci sono altre donne, e giornalisti, che hanno sofferto e stanno soffrendo molto di più a causa di questa “nuova” Arabia Saudita - e gli stessi problemi che ho vissuto ricorrono nelle loro storie, ma sono anche peggiori.

Nel 2016, MBS ha annunciato un forte impulso a sostegno dei diritti delle donne. In un'intervista a Bloomberg, ha promesso di "risolvere" il problema della difficoltà delle donne a ottenere "tutti i diritti concessi loro dall'Islam".
Ma come si concilia quella dichiarazione con il fatto che le donne, che chiedono i diritti fondamentali, sono sistematicamente prese di mira dallo Stato e che, con la campagna "per le donne" voluta dal principe ereditario, la pressione sulle attiviste si è solo intensificata? Perché donne come Nassima al-Sadah, Loujain Al-Hathloul, Samar Badawi e Nouf Abdulaziz sono in prigione per aver semplicemente sostenuto l'emancipazione femminile?
La Giornata delle Nazioni Unite per l'eliminazione della violenza contro le donne di quest'anno, il 25 novembre, è stata particolarmente dolorosa. Quel giorno, lo Stato saudita ha istituito un processo a sorpresa per Loujain Al-Hathloul, durante il quale il suo caso è stato deferito a un tribunale per il terrorismo, nientemeno. Il suo secondo processo è stato il 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani.

In tribunale, secondo la sua famiglia, Loujain sembrava debole, la sua voce era debole. Loujain ha ripetutamente accusato le autorità saudite di molestie sessuali e torture durante la detenzione. Le credo. Non solo perché dovremmo credere alle donne che parlano a caro prezzo degli abusi, ma perché ho assistito al comportamento spaventoso e violento di uomini vicini ai vertici sauditi.

Il "crimine" commesso da Loujain è stato usare la sua voce per parlare affinché le donne potessero guidare e avere una vita autonoma in Arabia Saudita. Ho visto tante volte le manipolazioni usate per indebolire e privare di potere le donne nella società saudita.
Sono convinta che le autorità saudite abbiano deliberatamente fatto di Loujain un esempio in quei giorni simbolici. Volevano inviare un messaggio alle donne: conosci il tuo posto e rimani lì.
Nel mondo di oggi sono necessari interventi creativi e diversificati per costruire un futuro più luminoso, in particolare in Medio Oriente. Non basteranno convegni e conferenze per creare una "nuova" Arabia Saudita, finché donne e uomini non potranno esprimersi in modo sincero e sicuro.

Molti sauditi continuano a sostenere il principe ereditario, credendo che le sue riforme cambieranno il Paese in meglio. Eppure MBS ha ripetutamente fallito, perché le sue promesse non potranno mai realizzarsi senza lo Stato di diritto e il giusto processo, che semplicemente non esistono in Arabia Saudita.

Non sono le attiviste per i diritti delle donne, gli oppositori o le operatrici della società civile a frenare lo sviluppo dell'Arabia Saudita, anche se questa è la linea che gli autocrati in Medio Oriente amano fare credere. Non sono i prigionieri di coscienza come Loujain a danneggiare il Medio Oriente; non sono giornalisti come Jamal Khashoggi, che ha espresso critiche costruttive per migliorare la società saudita, ed è stato ucciso per questo.

I veri colpevoli sono il bullismo, le intimidazioni e la corruzione, che hanno portato alcune delle menti più brillanti dell'Arabia Saudita e del mondo arabo ad essere imprigionate, uccise o costrette all'esilio autoimposto. È una cultura oppressiva che penetra in ogni istituzione statale. E la comunità globale permette che accada più e più volte.
Nessuna società è perfetta e nessun posto di lavoro o organizzazione governativa è senza colpa. Ma se il regno fosse veramente serio riguardo alle riforme, ci sarebbe uno scossone dall'alto verso il basso. L'atteggiamento del "o sei con noi o contro di noi" è obsoleto e inappropriato in un mondo in trasformazione. È sano, e persino incoraggiato dai principi islamici, fare domande, abbracciare la diversità e nuovi modi di pensare.
Ma le azioni dello Stato saudita, e in particolare di leader come Mohammed bin Salman, hanno finora dimostrato di temere donne autonome e pensatori indipendenti. Non importa quanto denaro viene speso in articoli "guidati" sulla stampa internazionale e in campagne di pubbliche relazioni, è quello il messaggio che il regno sta inviando al mondo.

Reem Abdellatif è ex corrispondente dall'estero con oltre 10 anni di esperienza in Medio Oriente e Nord Africa, specializzata in economia e questione femminile. I suoi articoli sono apparsi su WSJ, LA Times, Al-Monitor e altri giornali. È membro fondatore dell'African Women Rights Advocates (AWRA) e fondatrice e direttrice della Redefined Communications Agency nei Paesi Bassi.

Viviana Vestrucci, giornalista

23 dicembre 2020

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