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Contano di più le pietre o le persone?

l'atroce dilemma di Palmira

Il reporter del Guardian Julian Baggini affronta uno dei quesiti più drammatici che la guerra in Siria suscita. Perché ci sentiamo in colpa quando rimaniamo scioccati dalla distruzione di antichi manufatti e non, per esempio, all'ennesima notizia di una persona decapitata dall'ISIS? Che cosa succede in questi casi alla nostra capacità di provare empatia? Che cosa scatta in noi quando ammiriamo un uomo esemplare come Khaled al-Asaad, l'archeologo siriano che si è fatto uccidere piuttosto che condurre i miliziani dell'ISIS ai resti di Palmira? Di seguito la traduzione del suo articolo del 24 agosto.  

Perché va benissimo essere più sconvolti dalla distruzione di Palmira che dalle stragi

Recentemente, l’ISIS ha commesso due atrocità nella città siriana di Palmira: prima ha decapitato Khaled al-Asaad, l’ottantaduenne archeologo in pensione della città, prima di mutilarne il cadavere; quindi ha fatto saltare in aria l’antico tempio di Baal Shamin, costruito nel 17 d.C..

Si tratta in entrambi i casi di atti deplorevoli, ma non potrebbe sembrare altrettanto ripugnante il fatto che, a giudicare dalle reazioni della stampa e dei social network, per molti di noi la distruzione di un edificio di pietra è altrettanto scioccante della decapitazione di un essere umano? Noi sappiamo che le persone contano molto di più delle cose, e tuttavia sembra che possiamo essere più toccati dal vandalismo contro il patrimonio culturale che dalle più barbare uccisioni.

Ciò potrebbe spiegarsi in parte con un certo “affaticamento” dovuto al continuo affacciarsi di fenomeni che chiamano in causa la nostra compassione. Le notizie che si susseguono senza tregua sulle persone continuamente assassinate dall’Isis possono ottunderci, e c’è un motivo. Infatti, se veramente non potessimo mai smettere di pensare a ciò che ogni morte ha significato per le vittime e le loro famiglie, saremmo sicuramente sopraffatti dalla disperazione. Se l’empatia non incontrasse un limite naturale, anche le nostre pene non cesserebbero mai.

Ma non penso che questo centri il cuore del problema del perché sia giusto, in fin dei conti, che la razzia del tempio sia così importante per noi, e perché tali preoccupazioni possano essere altrettanto potenti di quelle che nutriamo per le nostre vite individuali.

Preoccuparci per l’umanità è molto più che desiderare che il numero più alto possibile di cuori continui a battere. Ciò che conta non è soltanto quanta gente rimane in vita, ma anche come viviamo. Nel corso della storia, la gente ha scelto anche la morte rispetto alla sopravvivenza a un prezzo troppo alto. Come disse il rivoluzionario messicano Emiliano Zapata, “è meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”.

Altri hanno scelto di lasciare il mondo con quello che ritenevano importante intatto piuttosto di rimanere in vita per vederlo distrutto. Può essere questo il caso di Khaled al-Asaad, del quale è stato detto che ha rifiutato di condurre i militanti dell’Isis ai resti di Palmira. Se al-Asaad credeva che il patrimonio di quella città contasse più della sua vita, allora non siamo così mostruosi se scopriamo di provare un sentimento in qualche modo simile al suo.

Ammirato per la sua opera di documentazione e promozione del patrimonio culturale della Siria, Asaad era considerato una risorsa nazionale tanto dai lealisti pro-regime che dagli oppositori.

Se vale la pena morire per certi ideali, significa che può valerne ancora di più a entrare in un conflitto destinato a mietere molte più vittime che se si fosse deciso di rimanere a casa. È per questo che il conto delle vittime è una misura sempre troppo grossolana della “giustizia” di una guerra. Sarebbe stato meglio, per esempio, concludere la pace con Hitler nel 1939 e salvare così le vite dei 60 milioni di persone che sarebbero perite nella seconda guerra mondiale, sapendo che il prezzo era di permettere lo sterminio di un numero inferiore di ebrei, omosessuali, rom e altre minoranze perseguitate? Il Terzo Reich era una macchia sull’onore dell’umanità e distruggerlo era più importante di ridurre il numero globale delle vittime. La dignità di morire per una buona causa può essere preferibile a permettere l’indegnità di un popolo trattato come subumano.

Occuparsi di come le persone vivono significa anche prendersi cura di quegli aspetti della cultura umana che parlano a parti di noi diverse dal nostro bisogno di cibo, riparo e buona salute. Implica che ci sono conquiste umane che trascendono le nostre stesse vite e travalicano le generazioni. Noi siamo solo di passaggio, ma ci sopravvivono i frutti dei nostri pari e di chi ci ha preceduto. C’è una misura di umiltà nell’osservare, come Rick in Casablanca, che i problemi di “piccole persone come noi non contano, in questa immensa tragedia”.

Quando l’Isis distrugge gli antichi siti archeologici non attacca solo gli edifici, ma anche i valori che la loro conservazione rappresenta, come il riconoscimento di una pluralità di culture che precedono e circondano la nostra, come pure il rispetto per le conquiste delle generazioni passate e un senso che ne siamo custodi per le generazioni che verranno. La distruzione del Tempio di Baal Shamin è un segno brutale e scioccante che questa è un’organizzazione che non ha rispetto per la diversità presente da sempre nella cultura e nelle civiltà umane, ma cerca invece di cancellare tutto tranne ciò che reputa degno. Mostra che, perfino quando l’Isis non uccide, non lascia vivere le persone come legittimamente desidererebbero, il che costituisce già di per sé una forma di terrore.

La distruzione di persone e luoghi potrebbe sembrare tutto un altro paio di maniche, ma la distinzione non è netta come potrebbe sembrare di primo acchito. Si possono danneggiare le persone in molti modi, e colpire i loro corpi è solo uno di questi. “Una parte di me è morta oggi”, ha twittato lo scrittore di origine pakistana Tarek Fateh in risposta alla demolizione a Palmira. Simili emozioni non sono mere metafore, ma offrono un senso al concetto per cui non siamo solo animali sparpagliati ma menti connesse ad altre in diverse epoche e in diversi luoghi attraverso il legame della compassione, della storia e dei valori. La distruzione dei siti storici è un assalto a questo aspetto dell’umanità.

Non sto proponendo di dare priorità alla conservazione dei manufatti rispetto al salvataggio delle vite umane. Se dovessi scegliere, sono sicuro che trarrei in salvo dall’incendio di una casa prima una persona di un Picasso. Ma ciò non significa che curarsi del nostro patrimonio voglia dire preoccuparsi delle cose più delle persone. Piuttosto, è un curarsi delle persone come più che mere entità biologiche.

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