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Diritto ad un nome

Riconsegnare un'identità alle vittime dei naufragi nel Mediterraneo

Nello scenario dell’emergenza profughi nel Mediterraneo, una delle attività umanamente più importanti, ma anche più dure, è quella di chi cerca di dare un nome, un volto e una degna sepoltura alle vittime dei naufragi.

Sono state circa 5000 nel 2016 le persone morte in mare nel tentativo di raggiungere la nostra Europa, e intorno ai 2000 dall’inizio del 2017. Una cifra che fino ad ora non era mai stata raggiunta. La maggioranza di queste persone non è mai stata identificata. Come si può evitare che il Mar Mediterraneo si trasformi in un cimitero di corpi senza famiglia?

La Legge Internazionale sui Diritti Umani stabilisce per gli Stati l’obbligo di identificare i deceduti e di rispettare i diritti delle famiglie dei migranti dispersi. Quale diritto più importante di quello di sapere se esiste ancora o no una speranza per i propri cari, di poter almeno dare concretezza al proprio dolore?

In questo senso la cooperazione tra i diversi Stati Europei e la raccolta dei dati ante mortem (servendosi principalmente delle dichiarazioni dei parenti e dei sopravvissuti) rappresentano lo snodo principale per poter migliorare la gestione di questa emergenza, come sostenuto anche dal “Mediterranean Missing Project”, nato nel 2016 dalla collaborazione tra il Centro per lo studio applicato dei Diritti Umani dell’Università di York, la City University di Londra e l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), che analizza le pratiche più efficienti per l’identificazione delle salme.

Molto utile in questo senso sarebbe la creazione di banche dati condivise nelle quali gli Stati possano scambiarsi informazioni sulle persone presenti a bordo delle imbarcazioni - la loro origine, con chi viaggiavano, come erano vestiti, che cose avevano con sé - e la realizzazione di protocolli strutturati per far convergere il lavoro di polizia e medici legali con le testimonianze raccolte. Creare dei fascicoli sui defunti passa spesso in secondo piano rispetto alla necessità di individuare gli scafisti responsabili delle tragedie, ma la realtà è che ci sono molte famiglie che, oltre alla sofferenza personale, dal punto di vista legale non possono nemmeno costituirsi parte civile nei processi, e quindi richiedere un risarcimento, perché non hanno un certificato che attesti la morte del proprio congiunto.

La mole d’investimenti ed energie necessari è sicuramente significativa e richiede una partecipazione su larga scala. Qualcuno però, nel suo piccolo, ha già dato una dimostrazione tangibile del fatto che il percorso è quello giusto. “Il poliziotto che usa Facebook per identificare i morti nel Mediterraneo”, Angelo Milazzo, ha riconosciuto 24 corpi del naufragio avvenuto davanti alle coste libiche il 24 agosto 2014 (che ha contato 352 superstiti e 24 morti), servendosi dei social network come mezzo principale, a seguito dell’intuizione avuta una sera dopo il lavoro, nella sua Siracusa.

Angelo ha trovato liste di nomi dei dispersi nell’affondamento in alcuni siti frequentati dai profughi siriani -questa infatti la nazionalità delle vittime - e ha intuito immediatamente che usare Facebook per cercare di parlare con i parenti o chiunque potesse essere informato sulla loro identità era la cosa in assoluto più utile. Con l’aiuto di una collega interprete di lingua araba, Milazzo ha aperto la pagina Facebook del Gruppo Interforze di contrasto all’immigrazione clandestina di Siracusa, il Gigic. La copertina del profilo era un frame del video che l’elicottero della Marina Militare aveva girato prima del disastro, ritraente il peschereccio colmo di profughi. Era necessario scegliere un’immagine che desse immediatamente l’idea di che cosa si stava parlando e raccogliere tutto il materiale fotografico sui protagonisti dell’accaduto. Sempre tutelando i dati personali delle persone coinvolte nel dramma, i volti dei migranti non venivano ovviamente mai pubblicati nel rispetto della privacy. Milazzo ha quindi iniziato a postare foto degli indumenti e degli oggetti ritrovati, si è messo in contatto con molti siti siriani fino a raggiungere una buona visibilità della pagina; a quel punto lo scambio di informazioni è cominciato. Spesso bastava il riconoscimento un dettaglio, come il colore di una maglietta, il soggetto di un tatuaggio o la forma di una cicatrice, per iniziare una conversazione privata sulla persona in questione (con chi l’aveva riconosciuta) e dare risposta a una domanda che poteva rimanere insoluta per molto, se non per sempre.

Molti parenti sono accorsi per identificare i corpi, e hanno potuto dare un saluto dignitoso, ognuno secondo la propria fede, a chi non ce l’ha fatta a raggiungere il rifugio per cui era partito.

Oggi Angelo lavora per realizzare un software che possa dare un aiuto ancora migliore di quello sperimentato con Facebook e che può essere un’alternativa certamente meno costosa e difficile del riconoscimento tramite DNA, che richiede il coinvolgimento di un parente in linea diretta spesso non facile da reperire.

Milazzo ci ha dato un esempio di intervento o, come scrive Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale, “è riuscito in un’impresa che le autorità italiane faticano a portare a termine. E ora spera che il metodo sperimentato possa essere usato anche da altri”.

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