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Diventare cittadini americani protestando contro Trump

di Yascha Mounk

Yascha Mounk è un ricercatore di origine tedesca che insegna ad Harvard. Ha testimoniato sul New York Times la sua esperienza di immigrato negli USA, che ora ha ottenuto la cittadinanza americana. Pensava di festeggiare aprendo una bottiglia di champagne al parco, invece lo ha fatto manifestando contro il travel ban di Trump e per "i nostri valori" di accoglienza.

Credevo da sempre che avrei fatto una cosa il giorno in cui sarei diventato cittadino americano: sarei andato al parco più vicino con alcuni amici cari, avrei aperto una bottiglia di champagne e sperato che un poliziotto mi desse un biglietto per permettermi di brindare all'aperto. 

Da quando sono arrivato negli Stati Uniti dalla Germania con un visto di studio nel 2005, mi sono fatto molte paranoie sulla possibilità di infrangere la legge. Quando i compagni di stanza si arrampicavano sul tetto per bere birra, io rimanevo seduto in salotto. Quando una ragazza che mi piaceva iniziava a dare da mangiare alle papere in gita a Central Park, rimanevo sul sentierino una cinquantina di metri più indietro, indicando il cartello "Non calpestare l'erba". 

Ammetto che probabilmente ero troppo cauto, ma come avrei spiegato timorosamente ai miei amici, i benefici dell'immigrazione sono un privilegio più che un diritto. Quando mi mettevo in attesa di un visto di lavoro, o per una green card, o una naturalizzazione, avrei dovuto documentare qualunque problema relativo alla mia fedina penale. E dato che la legge istruisce esplicitamente gli ufficiali che decideranno il mio destino ad accertarsi che io sia "di buon carattere morale", ho preferito evitare il minimo rischio di problemi legali.

Sono di classe media e molto istruito, bianco e con un visto valido. So che mi è andata molto meglio che a milioni di altri immigrati. Diversamente da loro, avevo poche ragioni per pensare che una violazione del divieto di aprire in pubblico contenitori di alcoolici potesse significare di essere sbattuto fuori dal Paese.

Questa differenza si è ulteriormente inasprita quando la nuova amministrazione ha impresso un'escalation ai rimpatri, rescisso migliaia di visti, perfino tentato di fermare i titolari di green card di Paesi come la Siria e lo Yemen dall'entrare nel Paese. Negli ultimi mesi, migliaia di famiglie sono state divise. Molti milioni in più vivono in uno stato di terrore.

Molti di loro sono costretti a una scelta che è molto più pericolosa di quelle che io abbia mai dovuto compiere: possono protestare contro il governo, con il rischio di venire rimpatriati, o rimanere in silenzio di fronte all'ingiustizia diretta proprio contro di loro

Questo mese, il giorno lungamente atteso è finalmente arrivato. Mi sono messo un abito blu acceso, una camicia bianca e una spilletta nera dove tenevo appuntata una citazione del movimento di protesta contro la guerra del Vietnam: "Viene un tempo in cui il silenzio è tradimento". Mentre guidavo verso la cerimonia di conferimento della mia cittadinanza alla Biblioteca Presidenziale John F. Kennedy, ho pensato alle ragioni per le quali voglio essere americano.

Da quando sono venuto in America ho preso un PhD in Scienza della politica. In primo luogo, mi sono concentrato nella mia ricerca su questioni più astratte, come il ruolo della responsabilità personale nel welfare state. Ma pochi anni fa - molto prima che la Gran Bretagna lasciasse la UE o che Donald J. Trump annunciasse che intendeva correre per la Presidenza - ho iniziato a preoccuparmi che la democrazia liberale fosse realmente minacciata negli Stati Uniti e nel mondo.

Nei miei studi, ho mostrato come i cittadini adesso attribuiscono meno importanza al vivere in una democrazia di quanto facessero un tempo, e che sono più aperti ad alternative autoritarie come i regimi militari. Quindi, non è stata una sopresa quando i cittadini frustrati dalla Gran Bretagna all'Ungheria, e dagli Stati Uniti all'India, hanno iniziato a votare per populisti autoritari che promettevano una rottura radicale con lo status quo.

C'è moltissima energia democratica dietro questi movimenti, ma dato che i populisti come il Presidente Trump danno valore solo al supporto di un ristretto segmento di cittadini e rivendicano un diritto esclusivo di parlare a nome del "popolo", sono un pericolo reale per le norme e le istituzioni necessarie per sostenere la democrazia.

Come Trump, i dittatori eletti democraticamente hanno creduto spesso di non dover dedicare la minima attenzione alle minoranze che offendono, nella loro politica. E come Trump, spesso hanno affermato che tutti coloro che mettono in discussione il loro governo - come i giudici indipendenti o i giornalisti critici - sono nemici del popolo. Per chiunque abbia studiato la morte delle democrazie, l'oscura retorica del Presidente suona familiare.

Una delle cose che ammiro di più degli Stati Uniti è il loro fiero attaccamento alla Costituzione. Gli americani hanno una devozione per le istituzioni democratiche e una società civile più attive dei cittadini di ogni altro Paese al mondo. Se i difensori della democrazia non ce la fanno qui, è molto dubbio che ce la possano fare ovunque.

Ma una delle cose che temo di più degli Stati Uniti è che la venerazione che qui si ha per la Costituzione e la legge è sempre a rischio di trasformarsi in autocompiacimento. Mentre il sistema di freni e controlli del Paese dà agli americani gli strumenti per salvaguardare le proprie libertà, la Costituzione non può difendersi da sola. Le difese che mette in campo funzioneranno soltanto se i cittadini sono preparati a usarle.

A mano a mano che questa presa di coscienza si affacciava alla mente degli americani negli ultimi mesi, e iniziava una coraggiosa lotta per l'anima del Paese, mi sono sentito sempre più consapevole del mio status di “resident alien.” Mentre avevo moltissime opportunità di parlare con gli americani, non potevo parlare da americano. E questo è il motivo per cui l'elezione di un pericoloso demagogo alla presidenza degli Stati Uniti mi ha reso più, e non meno, determinato a prendere la cittadinanza. Ora più che mai, voglio essere un membro a pieno diritto di questa società - e lottare per la sopravvivenza della democrazia liberale insieme ai miei nuovi compatrioti.

Il giuramento per diventare cittadino mi ha commosso più di quanto mi fossi aspettato. Per un momento ho incespicato e faticato a trovare le parole. Ma quando la mia voce ha ripreso a uscire, ho avuto una nuova determinazione: fiero e deciso, ho giurato di "difendere la Costituzione e le leggi degli Stati Uniti d'America contro tutti i nemici, stranieri e interni”.

Dopo la cerimonia, non sono andato al parco con gli amici. Non ho bevuto lo champagne. Non ho cercato di ottenere da un poliziotto un biglietto per poter celebrare la mia ritrovata libertà. Al contrario, ho fatto qualcosa che milioni di altri non possono fare senza paura: mi sono unito a una protesta a Boston contro il nuovo executive order sull'immigrazione.

Le due dozzine di persone che si erano riunite in un pomeriggio terso e freddo, recando cartelli come "Non più famiglie divise" e "gli immigrati sono l'America", non erano una folla molto impressionante. La polizia non ci ha praticamente degnati di attenzione, né nessun altro.

Ma il momento non era per questo meno ricco di significato per me. Per la prima volta protestavo contro un'azione ingiusta del mio governo. E per la prima volta, posso dire, come americano, che l'executive order - e la più ampia visione del mondo che rappresenta - è contrario ai nostri valori.

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