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I numeri delle migrazioni

un fenomeno globale

Secondo l’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, oggi nel mondo c’è il più alto numero di persone in fuga dai conflitti mai registrato dopo la Seconda guerra mondiale.
Di seguito presentiamo alcune cifre, utili per comprendere tale fenomeno globale.

Si stima che gli sfollati, all’interno del loro Paese o all’estero, siano in totale 68,5 milioni, l’1% della popolazione mondiale. Di questi, la maggior parte (86%) continua a vivere in Paesi in via di sviluppo o in zone diverse dall’Europa, nazioni “shock absorbers” come Pakistan, Uganda, Turchia, Libano, Giordania.

Circa il 40% di loro vive infatti sfollato nel proprio Paese. Dei 25,4 milioni di profughi oggi presenti nel mondo, la metà dei profughi viene solo da tre Paesi: Siria (6.3 milioni), Afghanistan (2.6) e Sud Sudan (2.4).
Lo Stato con il maggior numero di rifugiati in proporzione ai propri abitanti è il Libano, dove i profughi raggiungono il 25% della popolazione, soglia che rappresenta il “punto di rottura” per la stabilità di un Paese.

La crisi dei rifugiati che tutti conosciamo ha avuto il suo apice nel periodo 2015-2016 , con un forte aumento del numero dei richiedenti asilo in Europa. Da allora gli arrivi sono diminuiti, ma migliaia di persone sono ancora bloccate nei centri di accoglienza dell’Europa meridionale, spesso a causa di lungaggini e procedure burocratiche.
Un primo dato importante è quello relativo al numero degli sbarchi: nei primi quattro mesi del 2018, infatti, in Italia sono sbarcati circa 9.300 migranti, il 75% in meno rispetto allo stesso periodo del 2017 (dati Eurostat). Questi numeri seguono un trend iniziato negli ultimi sei mesi del 2017, che vedeva un caldo del 75% rispetto allo stesso periodo del 2016.

Il calo degli sbarchi si lega evidentemente a un calo delle richieste di asilo.
Tra il 2015 e il 2016, quasi tre milioni di persone hanno chiesto asilo all’Europa, (rispetto a una popolazione totale di 508 milioni di persone).
In Italia, il numero di tali domande è aumentato molto dal 2014 alla prima metà del 2017, mentre dalla seconda metà del 2017, in coincidenza con l’inizio del calo degli sbarchi, l’intervallo tra le richieste ricevute e quelle esaminate ha iniziato a ridursi, in risposta a un netto calo delle domande d’asilo presentate.
Nel nostro Paese vengono esaminate circa 7mila richieste di asilo al mese. Il ritardo nell’evasione delle pratiche ha portato a un costante accumulo delle stesse: se a gennaio 2014 erano meno di 15mila, oggi sono circa 150mila. Questo significa che l’Italia avrebbe bisogno di circa un anno e mezzo senza sbarchi per dare risposta a tutti i richiedenti asilo , o di tre anni con l’attuale volume di sbarchi.

Il calo degli sbarchi ha inoltre ridotto il numero delle vittime in mare: se nel 2016 se ne contavano 5143, e nei primi sei mesi del 2017 erano 4155, dall’inizio del calo degli sbarchi - e quindi da luglio 2017 ad aprile 2018 - se ne contano 1258 (dati IOM, Missing Migrant Project).

Nonostante la diminuzione degli sbarchi, tuttavia, è sbagliato pensare che la crisi sia finita: le cause che hanno scatenato gli spostamenti non sono affatto scomparse.
Fino a che continueranno le guerre, le persone continueranno a scappare. “La migrazione forzata può essere ridotta attraverso lo sviluppo economico, la buona governance nei paesi poveri e la pace”, si legge nel rapporto finale del gruppo del CSI (Centro di studi strategici di Washington), che per un anno ha studiato il fenomeno visitando Bangladesh, Giordania, Senegal, Svezia, Turchia, Uganda, e alcune città americane (Dallas, Detroit, Los Angeles e San Diego).
La comunità internazionale sta investendo oltre 28 miliardi di dollari per gestire la crisi. Tuttavia, la spesa rappresenta solo una risposta all’emergenza e non una risposta alle cause profonde delle migrazioni.

Quello che in questi ultimi anni ha reso le migrazioni un tema così urgente è stato soprattuto il rilevante aumento del numero dei Paesi da cui le persone migrano, a fronte di una diminuzione dei Paesi di destinazione. Secondo dati Unhcr e Eurostat, il Paese con maggiori richieste d’asilo nel 2017 è stata la Germania, con 198.255 domande; seconda l’Italia con 126.550, terza la Francia con 91.070.

Per offrire progetti di accoglienza gestiti dalle associazioni del terzo settore in collaborazione con gli enti locali, rimpiazzando i Centri di accoglienza amministrati a livello nazionale e fornendo servizi vicini al territorio e massimizzare le opportunità di integrazione, 16 anni fa in Italia è stato creato il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). Tuttavia, nel nostro Paese oggi il sistema di accoglienza è ancora in emergenza, con circa l’86% di richiedenti asilo e rifugiati situati in strutture non SPRAR e un sostanziale “abbandono” da parte dei Paesi europei.

I rimpatri dall’Italia sono pochi: solo il 20% (dati Eurostat) dei migranti a cui è stato intimato di lasciare il territorio è stato effettivamente allontanato, contro ad esempio il 78% della Germania. Uno dei problemi maggiori per il nostro Paese riguarda la nazionalità di chi riceve l’ordine di rimpatrio: se in Germania, ad esempio, il 36% delle persone raggiunte da tale provvedimento proviene dai Paesi dei Balcani - soprattuto Albania o Serbia, ritenuti “sicuri” e con cui Berlino ha accordi di rimpatrio - e da Afghanistan e Pakistan, l’Italia ha emesso decreti di espulsione soprattutto nei confronti di persone provenienti dal Nordafrica e dall’Africa subsahariana, con cui Roma ha pochissimi accordi di riammissione.

Tutto questo si aggrava se aggiungiamo il tema dell’aumento della popolazione dell’Africa subsahariana, che dal 1990 è passata da 500 milioni di persone a circa un miliardo (dati Onu). Se nel 1990 era il 3% di tale popolazione a spostarsi, oggi il dato è in leggera diminuzione, raggiungendo solo il 2,5%. Tuttavia, a cambiare nel tempo sono state le regioni di destinazione: mentre prima meno del 10% si spostava fuori dall’Africa subsahariana, oggi tale quota supera il 40%.

Siamo, secondo gli esperti, in una fase di analysis paralysis: la questione è così grande da provocare una paralisi nella valutazione del problema.
Se è vero che la grande maggioranza delle persone preferisce rimanere nel proprio Paese, non bisogna dimenticare che chi resta lo fa se può avere sicurezza e opportunità per il proprio futuro. Occorre quindi concentrare gli sforzi nella regolamentazione delle migrazioni - il cui volume oggi supera la capacità degli Stati di farvi fronte - e nello sviluppo di economie robuste e società resilienti.

11 settembre 2018

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