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Il genocidio degli indiani del Brasile

continuano le atrocità contro gli indigeni

Ci sono le foto, come quella di José Ribamar, del gruppo tribale Gamela del Brasile, ospedalizzato insieme alla figlia dopo l'ennesimo attacco da parte di rancher armati di fucile, avvenuto il 30 aprile 2017 nello stato di Maranao. Ci sono le denunce, come quella relativa all'uccisione a colpi di arma da fuoco di un bimbo di solamente un anno appartenente alla tribù Manchineri. Ci sono ancora 900.000 indigeni, sugli oltre 5 milioni che abitavano il Brasile all'inizio del 1500, quando arrivarono i portoghesi. E c'è una Costituzione che, dal 1988, riconosce i diritti dei nativi sulle loro terre.

Tuttavia non si ferma il tentativo di costringere queste popolazioni a vivere in zone sovraffollate e inquinate, ai margini delle foreste ricche di legname o da terreni considerati edificabili dai ricchi proprietari speculatori.

Ogni tanto gli indigeni si ribellano. Nell'agosto 2015 la tribù dei Guarani-Kaiowa ha tentato di rioccupare le proprie terre. Ma i suoi leader, come ad esempio Semião Vilhalva, sono stati uccisi dalle bande armate. I responsabili in alcuni casi sono stati acciuffati, ma le autorità li hanno rilasciati dopo pochi mesi.

Se restano nelle aree loro destinate, rischiano di sparire perché sono costretti ad assimilarsi, e a questo punto subiscono anche lo stigma di essere chiamati "falsi indiani". Un deputato li ha chiamati in Parlamento "gli pseudo-indigeni".

Tutto ciò è raccontato in un articolo del New York Times del 29 maggio 2017, che riporta anche come, in Brasile, per quanto riguarda la situazione degli indigeni, le commissioni d'inchiesta vengono formate in rappresentanza dei cosiddetti "caucus rurali", le circoscrizioni dei grandi proprietari. Ecco quindi che gli "pseudo-indigeni", insieme agli attivisti, agli antropologi e ai cooperanti internazionali, possono essere dichiarati ribelli dalle autorità e andare incontro ad ancora più violenze e discriminazioni.

12 giugno 2017

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