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"Il mondo arabo ha bisogno di libertà di espressione"

l'ultimo elzeviro di Jamal Khashoggi

"Ho ricevuto questo editoriale dal traduttore e assistente di Jamal Khashoggi il giorno dopo che Jamal è stato segnalato come disperso a Istanbul. Il Washington Post ne ha rimandato la pubblicazione perché speravamo che Jamal tornasse da noi, in modo tale che potessimo modificarlo insieme lui e io. Ora devo accettare i fatti: ciò non accadrà, e questo corsivo di Jamal è l’ultimo suo pezzo che correggerò per il Post. Esso coglie perfettamente il suo impegno e la sua passione per la libertà nel mondo arabo. Una libertà per la quale lui evidentemente ha sacrificato la vita. Sarà per sempre grata a Jamal per aver scelto il Washington Post come sua ultima casa giornalistica un anno fa, e per aver così reso possibile la nostra collaborazione."
Così Karen Attiah, Caporedattore Opinioni dal mondo, introduce l'ultimo articolo di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita ucciso a Istanbul. Si tratta di un accorato appello a fornire piattaforme a mezzo stampa e Internet ai giornalisti perseguitati nel mondo arabo. Una domanda, questa, per cui Jamal ha pagato con la vita.
Ecco le parole di Khashoggi.

Ero recentemente online per consultare il rapporto “La libertà nel mondo” 2018 pubblicato da Freedom House e sono giunto a una conclusione molto grave. C’è solo un Paese nel mondo arabo che è stato classificato come “libero” ed è la Tunisia. La Giordania, il Marocco e il Kuwait arrivano secondi, con una classificazione di “parzialmente liberi”. Il resto dei Paesi del mondo arabo è definito “non libero”.

Di conseguenza, gli arabi che vivono in questi Paesi o non sono informati del tutto o sono disinformati. Quindi non sono in grado di affrontare, e ancora di più di discutere pubblicamente, questioni che riguardano la loro regione e le loro vite quotidiane. Una narrazione diretta dallo Stato domina la psiche collettiva e, mentre molti non vi credono, un’ampia maggioranza della popolazione cade vittima di questa falsa narrazione. Tristemente, è molto improbabile che questa situazione cambi.

Il mondo arabo era carico di speranza durante la primavera del 2011. Giornalisti, accademici e l’intera popolazione fremevano per le aspettative di una società araba sfavillante e libera nei rispettivi Paesi. La gente sperava di essere emancipata dall’egemonia dei propri governi e dai relativi interventi e atti di censura sull’informazione. Queste aspettative vennero rapidamente soffocate; le società arabe o ricaddero all’indietro nel vecchio status quo o dovettero affrontare condizioni ancora più dure di prima.

Il mio caro amico, l’eminente scrittore saudita Saleh al-Shehi, scrisse uno degli editoriali più famosi mai pubblicati nella stampa del Paese arabo. Purtroppo ora sta scontando una pena detentiva arbitraria di cinque anni per presunti commenti contrari all’establishment saudita. Il sequestro da parte del governo egiziano dell’intera rotativa di un giornale, al-Masry al Youm, non ha provocato l’ira o anche solo una reazione dei colleghi. Queste azioni non incontrano più la riprovazione della comunità internazionale. Oggigiorno possono suscitare una reazione di condanna, ma essa viene presto seguita dal silenzio.

Di conseguenza, i governi arabi hanno avuto le mani libere per continuare a ridurre al silenzio i media con ancora più frequenza. C’era un tempo in cui i giornalisti credevano che Internet avrebbe liberato l’informazione dalla censura e dal controllo tradizionalmente imposti alla stampa. Questi governi, la cui esistenza stessa si basa sul controllo dell’informazione, hanno preso misure aggressive per bloccare Internet. Hanno anche arrestato molti cronisti locali e fatto pressione sugli sponsor della pubblicità per colpire gli introiti di specifiche pubblicazioni.

Ci sono alcune oasi che continuano a incarnare lo spirito della Primavera Araba. Il governo del Qatar continua a supportare i media internazionali, in contrasto con gli sforzi dei suoi vicini di tenere per sé il controllo dell’informazione sostenendo il “vecchio ordine arabo”. Perfino in Tunisia e Kuwait, dove la stampa è considerata almeno “parzialmente libera”, i media si concentrano su questioni interne ma non su quelle che affronta il mondo arabo in senso ampio. Essi esitano a fornire una piattaforma ai giornalisti dell’Arabia Saudita, dell’Egitto e dello Yemen. Perfino il Libano, il fiore all’occhiello del mondo arabo in tema di libertà di stampa, è caduto vittima della polarizzazione e dell’influenza dell’Hezbollah pro-Iran.

Il mondo arabo sta affrontando la propria versione della Cortina di Ferro, imposta non da attori internazionali, ma da forze interne che competono per il potere. Durante la Guerra Fredda, Radio Free Europe, che negli anni era diventata un’istituzione cruciale, giocò un ruolo importante nel promuovere e sostenere la speranza della libertà. Gli arabi hanno bisogno di qualcosa di simile. Nel 1967, il New York Times e il Washington Post assunsero la proprietà co-gestita del giornale International Herald Tribune, che divenne una piattaforma per le voci di tutto il mondo.

Il mio giornale, il Washington Post, ha preso l’iniziativa di tradurre molti dei miei pezzi e pubblicarli in arabo. Gli sono grato di questo. Gli arabi hanno bisogno di leggere nella propria lingua, così possono capire e discutere i vari aspetti e questioni della democrazia negli Stati Uniti e in Occidente. Se un egiziano legge un articolo che rivela i costi effettivi di un progetto di costruzione a Washington, sarà in grado di capire meglio le implicazioni di simili progetti nella sua comunità.

Il mondo arabo ha bisogno di una visione moderna dei vecchi media transnazionali, in modo tale che i cittadini possano essere informati sugli eventi globali. Cosa più importante, abbiamo bisogno di fornire una piattaforma alle voci arabe. Attraverso la creazione di un forum internazionale indipendente, isolato dall’influenza dei governi nazionalisti che diffondono l’odio con la loro propaganda, la gente comune nel mondo arabo sarebbe allora in grado di affrontare i problemi strutturali di quelle società.

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