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In Karabakh, tra i responsabili anche l'indifferenza

di Simone Zoppellaro

Nell’indifferenza dei nostri media, fra i balbettii distratti (e complici) della diplomazia italiana e europea, mentre i giornalisti – sotto shock e in lacrime, come mi raccontano fonti sul campo – scappano quasi tutti dal Karabakh, alle porte della nostra Europa è in corso un massacro.

L’invasione voluta da Erdogan e dall’autocrate azero Aliyev, in poco più di una settimana, ha seminato morte (diverse centinaia, forse migliaia i morti) e distruzione in questa piccola terra, costantemente (di nuovo due volte, solo stamattina) sotto i bombardamenti, fra artiglieria, aviazione, droni suicidi, bombe a grappolo. Che mirano ai civili. Quest’ultime, come mi racconta Roberto Travan de ‘La Stampa’, che si trova lì, sono “in una quantità incredibile, si conficcano nel terreno e poi esplodono, con decine di fori lasciati dagli ordigni, frammentandosi”.

Se i bambini sono stati evacuati, e moltissime famiglie già fuggite, i pochi civili rimasti in una Stepanakert spettrale e distrutta, si ammassano nei rifugi, sperando di sopravvivere ai continui bombardamenti. Le poche auto, la sera, mi racconta una collega armena, viaggiano a fari spenti per non essere colpite. Due giornalisti di Le Monde sono stati feriti da un attacco; un altro minibus di giornalisti internazionali è stato colpito.

Anche il giornalista Daniele Bellocchio, fra i pochissimi rimasti insieme a Travan, a rischio della sua vita, racconta una situazione disperata, senza appello. “Una terra dove vivere è proibito, ma morire è dovuto”, dove di ora in ora, di giorno in giorno, “la situazione si sta aggravando”.

Nessuno vuole vedere o sentire, nessuno vuole prendersi la responsabilità di fare pressioni affinché si arrivi a un cessate il fuoco. Eppure, dopo i continui bombardamenti, il pericolo è che, sfinito l’avversario, l’Azerbaijan forte di armamenti fra i più avanzati al mondo e dell’appoggio della Turchia, sfondi le linee e produca un massacro – annunciato come pochi nella storia, in un conflitto che si trascina da trent’anni. Un massacro i cui responsabili – sia detto per inciso – non sarebbero solo Baku ed Ankara. L’indifferenza nostra, dei nostri governi, delle tante organizzazioni che non se ne stanno occupando, è l’arma più potente nelle mani dei carnefici, oggi come ieri.

Nascondendosi dietro uno stallo decennale, dove al principio legale dell’autodeterminazione dei popoli (supportato dagli armeni) e quello dell’inviolabilità dei confini (rivendicata dagli azeri), le diplomazie europee sono assenti, irrilevanti, eludono il punto vero della questione: quello umanitario. Eppure, la soluzione è semplice, immediata, evidente: arrivare a un cessate il fuoco immediato affinché si possa dare spazio e speranza alla diplomazia e alla pace.

Non abbiamo alcuna alternativa: si deve fare, qui e ora, tutto il possibile per impedire i massacri che di giorno in giorno si stanno producendo. A un secolo dal genocidio armeno, gli armeni stanno vivendo come un trauma epocale un nuovo attacco turco-azero; un trauma che produce una rabbia, un dolore che toglie il fiato. Da parte loro gli azeri, nutrono a loro volta la loro furia nel trauma di una guerra perduta, quella conclusa con il cessate il fuoco (mai rispettato) del 1994.

Non c’è tempo. Un massacro di dimensioni immani è qui, dietro l’angolo, come sa benissimo chi, come me (purtroppo pochi), segue questo conflitto da molti anni, anche sul campo. Devono nascere iniziative di pace, bisogna informare l’opinione pubblica e, temo, anche la politica, delle dinamiche reali che sono in atto oggi.

Vi prego, vi scongiuro di occuparvi di questo conflitto, che possiamo ancora fermare, prima che la situazione sia irreparabile. Devono nascere, come in piccola parte sta già avvenendo, iniziative che sensibilizzino le persone comuni, che facciano pressione su una diplomazia distratta e assente. Se ne deve parlare nelle associazioni, nelle scuole, con iniziative che supportino le popolazioni coinvolte. Se ne deve scrivere, con voci autorevoli che impegnino a farlo.

Perché questa è l’unica priorità vera e, nella logica ludica e feroce del potere e della geopolitica, la più assente: l’ubi maior della vita umana, l’assoluta certezza che salvare anche una sola vita umana (e qui sono in pericolo decine di migliaia di persone) vale più di una bandiera, un proclama, e persino di un confine.

Non lasciare soli gli armeni nell’aggressione che subiscono da nemici molto più potenti di loro è un nostro dovere morale. No, questo non sarà forse un genocidio (tremo solo a scriverlo), ma la questione del Karabakh è figlia di quella memoria storica immane, che ispirò al giurista Raphael Lemkin, paragonandola alla Shoah, l’intuizione terminologica e legislativa del genocidio. Il Karabakh, a ben guardare, è una piccola fetta rimasta intatta di quell’Armenia storica ferita e rimossa. Gli armeni non lo lasceranno, se non combattendo fino all’ultimo uomo, fino a vedere ridotta la loro patria tutta in un cumulo di sangue e macerie.

In un’epoca in cui la storia – sempre di più – è esclusa, rimossa dall’immaginario e dalla coscienza di noi europei, so che non sarà facile per molti capire ciò che scrivo riguardo a questo punto. Ma non è necessario riflettere sui massimi sistemi, ora: ci sarà tempo per farlo poi, quando – come è sacrosanto – si guarderà a promuovere un compromesso fra armeni e azeri, che salvaguardi in primis i civili di entrambi le parti. La guerra non è mai stata foriera di pace, nella storia, né la morte ha prodotto nuova vita.

È fondamentale, invece, fare tutto – e tutti noi – quello che è in nostro potere (atti piccoli o grandi, non importa) per impedire un male che è già di fronte a noi, ma che potrebbe avere presto dimensioni inenarrabili, tali da lasciare tracce che potrebbero mutare per sempre il destino, non solo degli armeni e degli azeri, ma quello dell’intera Europa, che Erdogan (e, in parte, Putin) vogliono cacciare dal tavolo della diplomazia del Caucaso. Se l’avessero vinta, potete giurarci, non sarà l’ultima volta (e certo non solo in questo conflitto).

Se l’avessero vinta, tutti gli ideali umanitari, alti e nobili, che hanno ispirato la nascita dell’Europa, sarebbero, un’altra volta e per sempre, cancellati dalla storia. Sarebbero spazzatura ideologica. Non voglio e non posso crederlo, pur avendo nelle orecchie, notte e giorno, le grida e le parole degli amici del Karabakh la cui vita, ormai, sembra non aver più alcun valore.

Simone Zoppellaro

Analisi di Simone Zoppellaro, giornalista

5 ottobre 2020

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